Lo scorso marzo, le code al centro commerciale di Arese avevano preso alla sprovvista persino gli addetti ai lavori. L’arrivo di Primark in Italia ha infatti suscitato una risposta eclatante da parte del pubblico, desideroso di disporre finalmente della grande catena irlandese di abbigliamento a basso costo. E ora Primark fa il bis: inaugura infatti nel 2017 un (enorme) negozio di 9000 metri quadrati nel nuovo centro commerciale IKEA Center di Roncadelle (BS), per il quale sono previste all’incirca 400 nuove assunzioni tra part-time e contratti a tempo indeterminato e determinato. Le posizioni più ricercate? Manager, commessi, cassieri e magazzinieri.
Come sempre quando si parla di low-cost, però, qualche chiarimento in merito è doveroso: quanto è sostenibile oggi questo modello di business? E come ha modificato le abitudini dei consumatori?
Perché funziona il fast fashion
Far sì che anche chi non può permettersi di spendere cifre esorbitanti possa avere un guardaroba di tendenza, “ispirato” alle passerelle dei grandi marchi della moda: comprendere il successo del fast fashion non è difficile. A lungo si è parlato di “democratizzazione” della moda e di come il low-cost abbia modificato profondamente le abitudini dei consumatori, spingendoli a comprare molto di più e molto più spesso, e provocato la crisi del modello tradizionale dell’industria moda, che si reggeva sulle sfilate stagionali.
Credits: Getty Images
Un modello di business controverso
Come ci aveva raccontato Francesca Romana Rinaldi, docente di Fashion management all’università Bocconi di Milano, in occasione dell’apertura di Arese: «[Il fast-fashion] ha portato le persone nei negozi una volta a settimana invece di una a stagione. Da una parte spinge verso l’approccio usa-e-getta, dall’altra offre l’accesso a prodotti di tendenza con un buon rapporto qualità-prezzo».
Molti dei grandi marchi di moda low-cost (fra cui Zara, H&M, Primark) introducono nuova merce nei negozi a scadenza quindicinale: per sostenere questi ritmi serrati, hanno perciò localizzato la produzione in Paesi, come l’India o il Bangladesh, dove la manodopera è a basso costo ma la logistica è funzionante. Dopo lo spaventoso crollo di un edificio del 24 aprile 2013 a Dacca in Bangladesh, che ha provocato 1134 vittime e oltre 2500 feriti, Primark ha risarcito con oltre 10 milioni di dollari i familiari di 581 operai che hanno perso la vita nell’incidente.
Nello stesso edificio si producevano abiti per Auchan, Inditex, Walmart, Bonmarché, Mango e Primark fra gli altri.
Credits: Getty Images
Rieducarci al consumo
Comprare low-cost è allora sempre sbagliato? La questione non è così semplice: il fast fashion, infatti, ha modificato radicalmente il nostro approccio alla moda e se è vero che sempre più persone si stanno orientando verso un guardaroba etico e sostenibile, altrettanti, soprattutto i più giovani, non rinunciano alla possibilità di poter disporre di una vasta scelta di capi da mixare fra loro.
Gli stessi marchi, poi, hanno iniziato da tempo a mettere in campo iniziative volte a cambiare la loro percezione nel pubblico: Primark, ad esempio, ha avviato in India dei programmi di coltivazione di cotone biologico, nei quali conta di coinvolgere diecimila donne nei prossimi sei anni (per ora sono 1251 le lavoratrici che vi hanno preso parte). La scorsa primavera, invece, H&M aveva lanciato la settimana legata al riciclo, iniziativa che anche non aveva mancato di sollevare polemiche.
A fare la differenza, allora, sarà sempre di più l’atteggiamento del consumatore, che sceglierà di comprare meno, magari occasionalmente di investire in pezzi di buona fattura o preferendo investire in marchi che mantengono la produzione in Italia.