murale Codogno, il murale di Wonder Woman l'omaggio dello street artist Alessio-B. ai medici eroi del coronavirus
Il murale di Wonder Woman a Codogno: l'omaggio dello street artist Alessio-B. ai medici eroi del coronavirus

Coronavirus, tre anni dopo

L'anniversario del coronavirus di tre anni fa si celebra in procura. Mentre i giudici indagano, il lutto dei famigliari non si placa. Chi ha visto scomparire i propri cari senza poter dire addio vive un dolore più difficile di quello traumatico: qui la testimonianza di una nostra giornalista

Coronavirus, anniversario. Tre anni fa, di questi tempi, l’Italia finiva in lockdown con il dpcm del 9 marzo 2020 che chiudeva il Paese a partire dal giorno seguente.

Coronavirus, anniversario

A tre anni di distanza e a due dall’inizio della campagna vaccinale che ha arginato la tragedia, le procure indagano. Per aver sottovalutato il rischio e non aver subito istituito la zona rossa nella Bergamasca sono ora indagati per epidemia colposa, tra gli altri, l’allora premier Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza e il governatore della Lombardia Attilio Fontana

La scomparsa dei malati

Ma il conteggio delle vittime di Coronavirus va avanti. 188.094. Tra una settimana questa cifra sarà diversa, più grande, ma non importa: ogni volta, da quell’insieme di numeri che da 3 anni si aggiorna nelle statistiche, io immagino di toglierne uno e penso a come sarebbe bello il mondo se fosse possibile. 188.094 è il totale dei morti di Covid in Italia dall’inizio della pandemia, e uno di quei numeri è mia madre.

A ogni bollettino – quotidiano fino a quest’autunno, poi settimanale – ho coltivato dentro di me questo pensiero magico: con i numeri è facile, aggiungere o sottrarre è sempre possibile. Ma quelle cifre sono persone che non ci sono più. Madri, padri, nonni, fratelli, amici, amanti usciti di casa a curarsi dal Coronavirus e scomparsi nel nulla: non una parola, non una visita, non un abbraccio, non un corpo da vestire e da piangere. Lutti così gli addetti ai lavori li chiamano “complicati”, perché più difficili da elaborare. Lutti che resistono al tempo. E così, a 3 anni da quel marzo 2020 che ha segnato l’inizio della pandemia, mentre il Covid sembra a molti una parentesi surreale da archiviare ributtandosi nella vita, c’è chi oggi – all’anniversario – i conti emotivamente ancora non li ha chiusi.

I nostri anziani stanno morendo. Da soli

VEDI ANCHE

I nostri anziani stanno morendo. Da soli

Coronavirus, anniversario: il documentario e il libro

Al lento processo di metabolizzazione collettiva il regista Stefano Savona ha dedicato il documentario Le mura di Bergamo, che riporta al punto esatto da cui tutto è partito. Alle storie private, invece, e ai percorsi di uscita da quel dolore che è individuale e intimo, ha dedicato un bel libro la giornalista Valentina Calzavara: si intitola Lo strappo sospeso (Tab edizioni) e spiega come mai il lutto da Covid sia diverso dagli altri. «Nel 2020 mi occupavo di sanità e la prima ondata l’ho seguita sul campo. Finita quella fase, ho sentito il bisogno di tornare al racconto delle vittime, per ridare consistenza di persone a coloro che finivano per essere numeri sui bollettini quotidiani » spiega. «La pandemia si è evoluta, sono arrivati i vaccini e l’urgenza si è allentata. Ma per chi ha perduto una persona amata in quel modo il dolore è rimasto». Ognuna delle persone che ha incontrato, dice Valentina, ha trovato la strada della rinascita attraverso piccoli gesti. «Ho in mente, per esempio, un gruppo di donne che hanno perso i mariti nella prima ondata. Si sono conosciute sui social e poi hanno stretto una sorellanza sul dolore condiviso».

Le mogli che hanno perso i mariti

Una di loro è Francesca Vocino, che ha perso suo marito Matteo nella prima ondata, il 25 marzo 2020. Racconta l’inizio dell’incubo: l’arrivo di quella febbre che nessuno credeva Covid perché il Sud sembrava al riparo. «Gli ospedali erano aperti, non c’erano mascherine né distanze. Anche quando è stato intubato, Matteo era tranquillo ». Poi dalla rianimazione esce un medico tutto bardato e pronuncia per la prima volta la parola Coronavirus. Francesca finisce in quarantena, in attesa di quell’unica telefonata quotidiana dal reparto. «Non ho più visto Matteo né vivo né morto, e non gli ho mai parlato. Passavo il tempo a pregare perché sentivo che la medicina non sarebbe bastata». Il suo dolore l’ha vissuto da sola, chiusa in casa: «Ho scelto la bara su WhatsApp e così i fiori. Il funerale non si poteva fare, giusto una benedizione al cimitero». Il primo anno, dice, l’ha affrontato piena di angoscia. «Per stare meglio, ho cercato in Rete persone che avessero attraversato la mia stessa esperienza. Questo è un lutto difficile da accettare perché nessuno sa spiegarti come mai a causa del Covid persone sane come mio marito se ne sono andate e altre, magari malate, sono ancora qui. L’incontro con altre donne mi ha fatto svoltare. Passavamo le nottate in videochat. Le nostre chiacchiere si sono aperte a cose più frivole e dal dolore è nata un’amicizia».

Il lutto è della famiglia ma anche dei medici

Le loro storie, sono diventate un libro: Mariti con le ali (Effatà editrice). «Alla presentazione ci siamo incontrate per la prima volta: abbracciare le altre è stato come abbracciare noi stesse». Francesca ha trovato una via d’uscita, ma basta un giro in Rete per capire che molti restano inchiodati al dolore. Dice Maria Rita Parsi, psicologa e psicoterapeuta, che il problema, quando hai perso qualcuno per il Covid, non è la paura di morire, ma la paura di vivere. «Il segreto della felicità è la libertà e il segreto della libertà è il coraggio. Il coraggio però va coltivato ogni giorno come un giardino, devi prenderti cura del dolore che senti. Altrimenti finisci sopraffatto dalle emozioni». Francesca Brandolini, responsabile dell’area psicologia di Vidas, racconta come, nel pieno dell’emergenza, abbiano attivato due linee telefoniche: una dedicata ai parenti e l’altra ai sanitari. «Sono arrivate centinaia di chiamate. Quasi tutti chiedevano chi avesse dato l’ultima carezza alla persona che piangevano. Dall’altra parte avevamo medici e infermieri che dicevano: “Io quelle persone le ho tutte negli occhi”. Abbiamo fatto da ponte tra i due racconti e per molti è stato un sollievo. I lutti delle ondate successive sono un po’ diversi: c’è stato un momento in cui abbiamo capito di essere tutti a rischio e molte persone hanno usato il lockdown e il trauma collettivo per dirsi delle cose».

Il lutto del Coronavirus è peggio del lutto traumatico

L’aspetto traumatico della perdita, spiega Lorenzo Bolzonello, psicologo e tanatologo, è quello che incide di più: «Il lutto per Covid ha le caratteristiche dei lutti improvvisi, accomunati dall’impossibilità di dirsi addio. In più, durante le prime ondate, la situazione di emergenza ha precluso cose normali anche nei lutti traumatici: la visita in ospedale o in obitorio, la scelta dei vestiti, il funerale, il conforto degli amici. L’assenza di rito ha esasperato la sensazione di essere l’unico a vivere quel dolore». Siamo a marzo, per molti il mese degli anniversari, dei giri di boa. «Ogni volta che c’è un elemento che ci riporta a quel giorno, si riattiva il ricordo e si rivive il dolore: la sirena di un’ambulanza, in una vetrina le scarpe che la persona indossava quando è uscita di casa» spiega la psicologa Francesca Mazzocco. Per aiutare i suoi pazienti usa la tecnica dell’Emdr, che mira a togliere ai ricordi la loro carica negativa: «Non è una bacchetta magica, ma aiuta. La sofferenza resta, però il disturbo che ostacola la nostra vita e le impedisce di andare avanti si risolve».

Una città spezzata: l’anniversario con il documentario su Bergamo

Molti italiani hanno solo voglia di dimenticare, di tornare alla vita di prima. Ma la vita di Bergamo non è più la stessa dal 2020, quando tra febbraio e marzo sono morti per il Coronavirus 6.000 dei suoi 120.000 abitanti (su 15.000 vittime dell’intera Lombardia).

UNA FERITA NETTA SPACCA LA SUA STORIA IN DUE, PRIMA E DOPO IL COVID. Le mura di Bergamo di Stefano Savona, documentario presentato alla Berlinale e in tour nei cinema dal 16 marzo (in anteprima il 12 nel capoluogo orobico), guarda la comunità più colpita d’Italia combattere il virus come un corpo unico e unito. Ci porta tra medici e malati, tra i parenti delle vittime increduli per non aver neppure potuto salutare chi li ha lasciati, alcuni con il senso di colpa per essere guariti. La città deserta attraversata dalle sirene, continue, delle ambulanze. La disperazione di chi risponde al 118 senza poter garantire i soccorsi. Alpini e volontari che portano pasti e gentilezze agli anziani soli. Infermieri in trincea: «Ci siamo ritrovati a fare anche la parte dei parenti, a dare un ultimo abbraccio per restituire umanità a quei malati». I camion dell’esercito arrivano per portare via le bare che Bergamo non riesce più a seppellire. Una catastrofe umanitaria consumata dentro le case, le Rsa, gli ospedali. A molti mesi di distanza, alcuni si ritrovano a parlare dei momenti più difficili. «Ero in apnea» dice l’operatrice funebre costretta a sepolture d’emergenza. «La città è come un mosaico che la pandemia ha frammentato» riflette il regista Stefano Savona «ma se ogni scheggia presa da sola provoca sofferenza, ricomporre il quadro fa stare tutti un po’ meglio. Raccontare, non rimuovere, è la terapia». (Valeria Vignale)

Riproduzione riservata