I nostri anziani stanno morendo. Da soli

Le case di cura dove si segnalano contagi da coronavirus vengono chiuse e gli anziani isolati. Così muoiono soli, per il virus o perché si lasciano andare, privati della possibilità di congedarsi, di salutare, di dire ai familiari cose importanti. Ecco cosa sta succedendo

I nostri nonni stanno morendo. E spesso da soli. Il coronavirus se li sta portando via. Quello “sciame virale che attraversa la terra”, come ha detto la scienziata Ilaria Capua, è uno sciame grigio che fa strage dei nostri anziani, in una sorta di eutanasia virale. Un ultimo atto verso la vita che molte volte li trova soli, ne strazia i polmoni e toglie loro l’ultimo respiro, senza un paio d’occhi da guardare per l’ultima volta. «Volevo tenere la mano di mia mamma, e non ci sono riuscita. È morta da sola». Così si è spenta Gilda, un’anziana ospite di una RSA di Mediglia, nel milanese, come ha raccontato qualche giorno fa la figlia Milva in tivù.

In isolamento si muore per il contagio o ci si lascia andare

È l’ultimo caso di questi giorni – e chissà quanti altri ne emergeranno – che ha scoperchiato la realtà già nota, ma non ancora documentata, delle morti in solitudine dei nostri anziani nelle case di cura. Molti per il contagio, altri per la scelta di lasciarsi andare, privati della possibilità di vedere i familiari dopo il forzato isolamento della struttura. A Mediglia sono decedute così 59 persone – un triste record – prima contagiate dai mancati controlli iniziali, poi isolate da una doverosa direttiva dell’Iss che impone il “divieto di accedere alla struttura da parte di familiari e conoscenti”. Quel precauzionale isolamento che si trasforma in molti casi in una morte invisibile e silenziosa, in solitudine.

Morire da soli priva dell’ultimo atto di libertà

Ma morire da soli è terribile. Il professor Alessio Musio, docente di Etica all’Università Cattolica di Milano, cita un pensatore, Max Scheler, per dirci che «morire è “un atto autonomo”, nel senso che fa parte del vivere di una persona e come tale deve essere vissuto: come un atto personale, fino all’ultimo istante. Chi muore da solo nelle condizioni che stiamo vedendo – spiega il professore – è privato della possibilità di congedarsi, di salutare, di dire all’altro delle cose importanti e custodite nel cuore e nella mente. Autonomo non vuol dire “da solo’”. «Mi è capitato – rievoca Musio – di vedere un uomo che nei suoi ultimi momenti prima di morire si è scusato con una persona cara per il modo in cui l’aveva trattata: un gesto che per chi è rimasto ha rappresentato un’eredità incredibile di ricapitolazione e ripensamento».

Restare isolati spersonalizza la vita

Morire senza una persona amata accanto è anche rinunciare a una parte di sé. «In tutte le relazioni importanti, come può essere quella tra genitori e figli, o tra partner, l’amore ha sempre a che fare con il far vedere e sentire quanto sia preziosa l’esistenza della persona amata, perché l’altro diventa una parte essenziale della propria biografia, quasi della definizione di sé. Morire senza avere i propri cari accanto, o senza potersi perlomeno congedare, significa sottrarre questa dimensione personale connessa al vissuto, più che soltanto al processo del morire». Significa insomma rinunciare a un pezzo importante della propria vita, quello rappresentato dagli affetti.

Chi si trova senza affetti si lascia andare

Terribile come l’ultimo atto di chi, rimasto solo perché isolato dalla famiglia, decide di lasciarsi andare. «Ci sono persone che non mangiano e non bevono più, altre che precipitano in un delirio mentale dentro a cui possono resistere solo con la sedazione, per poi andarsene in modo naturale. Altri scivolano nella depressione» spiega il professor Raffaele Antonelli Incalzi, docente di medicina interna e geriatria all’Università Campus Bio Medico di Roma e presidente della Società Italiana di geriatria e gerontologia. I più lucidi trovano nella tecnologia una ciambella di salvataggio che li può ancorare alla vita là fuori, agli affetti. «Contiamo di rendere disponibile presto una app pensata proprio per gli anziani nelle case di cura, molto semplice, per aiutarli a comunicare con le famiglie. Anche adesso, dove possibile, infermieri e operatori fanno da ponte con gli affetti attraverso smartphone e device che cercano di usare insieme alla persona ricoverata per fare videochiamate».

I decessi dei nonni sono in aumento

Certo tenere un filo con il mondo esterno fa la differenza. Non sempre è possibile, non sempre funziona. I numeri dei decessi intanto sono in crescita. Morti (per il contagio o per l’isolamento) e ammalati si moltiplicano nelle case di riposo, da Medicina nel Bolognese a Barbariga e Quinzano nel Bresciano, da Merlara nel Padovano a Comeana in provincia di Prato. E poi Foggia, Lecce, Civitavecchia, Rieti, in un centro Italia che sta giorno per giorno ridisegnando la mappa del contagio. Sono circa 7mila le strutture da nord a sud che ospitano 300mila nonni, poco meno del 10 per cento dei nostri over 80, secondo un’analisi di Uecoop (l’Unione europea delle cooperative), su dati del ministero dell’Interno. Il 55 per cento dei morti per l’epidemia ha oltre 80 anni, il 99 per cento più di 60.

Fatale l’errore nel monitoraggio iniziale dei contagiati

I dati non sono comunque ancora chiari perché è mancato un monitoraggio iniziale dei contagi, come ci spiega Giorgio Stecconi Bortolani, medico chirurgo specialista in Endocrinologia a Parma, da settimane al centro dell’epidemia. Il dottore è uno dei fondatori di Geopolitical Center, uno dei siti di analisi più brillanti e seguiti in Italia. «Credo che il problema del contagio nelle case di cura non sia dovuto all’occultamento dei positivi: semmai è mancata la diagnosi sia precoce che tardiva. Non si è stati in grado di identificare i positivi, tracciare i contatti e isolare i malati. E questo pare essere accaduto ovunque, in ospedali, case di cura private, a domicilio. Il fatto che esistano delle case di cura “lazzaretto” è dovuto a un ingorgo dei sistemi di assistenza con maggiore capacità di cura».

Il nostro sistema sanitario è fragilissimo di fronte al virus

In pratica, ci dice, l’Italia è una società molto anziana che non era preparata a far fronte a un improvviso numero di persone che necessitano di cure ospedaliere. «Negli ultimi 20 anni si è scelta la politica dei tagli e si sono eliminati troppi posti letto, inclusi quelli ad alta specializzazione (terapie intensive, pronto soccorso, cardiologia, pneumologia) durante le presunte “razionalizzazioni”». Un errore madornale, come spiega anche il professor Antonelli Incalzi, a cui se ne è aggiunto un altro. «Mentre si tagliava, si dava vita a un sistema sanitario eccellente per quanto riguarda le risposte di alto livello ma fragilissimo rispetto a un’emergenza come il virus, perché basato su ospedali monoblocco generalisti, privi di spazi dedicati, e debolissimo nell’assistenza territoriale. Un sistema oggi tutto da ripensare, dove manca la capillarità ed è venuto meno il ruolo delle Asl: oggi la cura è concentrata negli ospedali quando invece i malati complessi e gli anziani dovrebbero essere seguiti a casa, e non solo dalle associazioni».

Il virus si abbatte sulle società più fatiscenti

Oggi in Italia 4 milioni di persone hanno più di 80 anni. E così, con la pandemia, dopo il primato della nazione europea con il più basso indice di natalità, registriamo anche il più alto numero di morti. Ecco dunque che lo tsunami sanitario del coronavirus non a caso colpisce una nazione così fatiscente dal punto di vista demografico come la nostra. «Le società ricche globalizzate sono molto esposte e quelle anziane, come l’Italia, la Cina, l’Iran e la Corea del Sud – le più colpite dal virus – lo sono ancora di più. È evidente che la sicurezza nazionale passa anche attraverso il mantenimento di un rapporto adeguato tra gli anziani e la restante parte della popolazione». Oggi, insomma, spiega il dottor Stecconi Bortolani, perdendo i nostri nonni paghiamo lo scotto di politiche che non hanno sostenuto la natalità e non hanno creduto nella nostra capacità produttiva. «Non abbiamo politiche che tutelino i nostri genitori e i nostri nonni, non abbiamo incentivi efficaci alla natalità e “infrastrutture” in grado di supportare famiglie dove il lavoro di entrambi i genitori non è una scelta ma una inderogabile necessità di sopravvivenza. La popolazione anziana ha le pensioni, ma non ha più le famiglie dietro a sostenerle. Nelle ultime due generazioni sono aumentate le persone non sposate e le divorziate; le persone che non hanno figli o che ne hanno uno; e così la cintura di sicurezza della società che è sempre stata la famiglia si sta atrofizzando. L’invecchiamento massiccio e la solitudine della popolazione è un grande fenomeno delle società avanzate come la nostra».

Morire da soli deve restare un fatto eccezionale

Ci può forse confortare il fatto che la situazione che stiamo vivendo è “eccezionale” sotto tanti punti di vista, come fa notare il professor Musio. «Anche morire da soli è eccezionale, dove eccezionale non vuol dire che l’evento sia legittimo. Vuol dire che, al momento, non sappiamo come arginarlo. Eccezionale non è il positivo. Dobbiamo reimparare a pensare che il positivo, la normalità, sono le dinamiche di cura reciproca e le relazioni, non la solitudine e gli abbandoni. Ed è da qui che dovremo ripartire dopo».

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