La resistenza mentale alla Fase 2

La resistenza mentale alla fase 2 è quella di chi si è assestato bene nella nuova routine casalinga. Più lenta, protetta dalle mura di casa, a contatto con i famigliari. E quella di chi ha molta paura di ammalarsi. Come superarla

A dichiarare pubblicamente la sua resistenza alla fine del lockdown è stata l’attrice Sophie Turner, protagonista de Il Trono di Spade, che già all’inizio dell’epidemia aveva dichiarato di amare la quarantena e di non voler tornare alla vita precedente, quella prima dell’emergenza coronavirus. Alla sua voce controcorrente, però, ora si aggiunge quella di chi, dai social, inizia a temere la fine dell’isolamento sociale. C’è chi, dopo un iniziale disorientamento e difficoltà, ora si è abituato a nuovi ritmi creandosi rituali quotidiani e imparando ad apprezzare una vita meno frenetica, a stretto contatto con i familiari e con più flessibilità professionale con lo smart working. Il risultato: ora non vorrebbe la Fase 2.

Chi si è ben organizzato nella routine casalinga

Facebook, Instagram e Twitter sono diventati canali privilegiati per tenersi in contatto con amici e familiari, e proprio dalla rete arrivano gli sfoghi di chi non vorrebbe tornare alle vecchie abitudini: «Noi siamo molto abitudinari e, se all’inizio è stato difficile passare da uno stile di vita a un altro, adesso in molti fanno resistenza a tornare indietro. C’è chi ha trovato un proprio modus vivendi, una dimensione nuova in cui riesce a riassaporare, per esempio, la vicinanza con la famiglia che magari prima era sacrificata dal lavoro, oppure c’è chi ha imparato a suddividere gli spazi e i compiti in modo nuovo, o a esercitare la pazienza come non avrebbe mai immaginato. Certo non vale per tutti, ma molti me lo confermano, raccontando di come abbiano imparato ad apprezzare anche le attività in casa, in cucina e con i figli» spiega Anna Oliviero Ferraris, psicologa e psicoterapeuta. Ma quanto tempo serve per cambiare abitudini?

Bastano 3 settimane per cambiare abitudini

Tre settimane sono sufficienti per voltare pagina? Ne sono convinti Franco Berrino, Daniel Lumera e David Mariani, autori di Ventuno giorni per rinascere (Mondadori), nel quale spiegano che studi scientifici e tradizioni culturali orientali e sudamericane indicano proprio in tre settimane il tempo minimo in cui è possibile cambiare le proprie abitudini. E così per molti alle giornate frenetiche sono subentrati ritmi più lenti e scanditi da nuove routine: la pulizia della casa, la preparazione dei pasti, lo studio, il lavoro in smart working o i compiti dei figli e, per i più fortunati, i momenti liberi e di svago. Adesso uscire da questa comfort zone diventa difficile.

Chi si è “accomodato” nella vita in tuta

Persino un’icona della moda come Anna Wintour, direttrice di Vogue, si è fatta fotografare in casa con indosso una tuta, esattamente come Chiara Ferragni. L’isolamento forzato ha portato a rivoluzionare sia le abitudini che gli outfit. «Oggi ci è richiesta maggiore capacità di adattamento rispetto al passato, perché i cambiamenti sono molto più veloci, continui e improvvisi, come nel caso dell’emergenza sanitaria che chi ha chiuso in casa in modo inaspettato. Per nostra natura tendiamo ad accomodarci, ma la società ci costringe ad essere elastici e pronti al cambiamento» spiega Oliviero Ferraris.

Chi teme di ammalarsi e soffre di germofobia

Secondo una ricerca condotta nei primi quindici giorni di aprile da Nomisma con CRIF (Centrale Crediti Finanziari) 1 italiano su 5 non è mai uscito di casa durante il lockdown, mentre chi è uscito lo ha fatto solo per svolgere attività “quotidiane o di necessità”, come la spesa (75%), buttare la spazzatura (62%) o per andare a lavorare (30%), sempre però accompagnato dal timore, soprattutto di ammalarsi (1 su 4). Il distanziamento proseguirà, infatti, ma dovremo dire addio a certi gesti che possono aumentare il rischio di venire a contatto con germi. «Qualcuno svilupperà sicuramente la germofobia e la pausa dell’eccessiva vicinanza, che la generazione più giovane aveva dimenticato. Chi, come me, è cresciuto con genitori che avevano conosciuto l’influenza spagnola, era già molto attento all’igiene e a seguire forme di saluto meno eclatanti rispetto ai baci e agli abbracci a cui erano abituati i più giovani. Ora, invece, si riscopriranno forme di saluto più discrete, magari basate più sugli sguardi che non sul contatto fisico» spiega la psicoterapeuta.

Chi ha paura delle novità del “dopo Covid” 

C’è poi anche la paura delle novità: si tornerà in ufficio con modalità differenti, che riguardano sia il lavoro stesso che i mezzi pubblici o l’accesso a negozi, locali e ristoranti. Insomma, dimentichiamoci il “rituale” del caffè di inizio mattina con le colleghe al bancone del bar. I dati della ricerca Nomisma confermano che i timori più fondati derivano proprio dalle nuove modalità con le quali ci si dovrà relazionare con gli altri. In vista della riapertura oltre la metà degli intervistati (52%) non è tranquillo, soprattutto per i rischi di utilizzare i mezzi pubblici (41%) e avere contatti ravvicinati (39%), mentre solo l’8% non ha alcuna paura. 

Per superare le resistenze, ripartire piano e stare all’aperto

Come vivere al meglio il ritorno alla routine, magari meno frenetica? «Il consiglio è sicuramente quello di fare tesoro di questa esperienza, seppure negativa, per tornare a vivere con ritmi più sostenibili nella quotidianità, a una dimensione familiare più accettabile, per esempio rivedendo anche il carico di impegni e attività dei figli. Un altro consiglio è di rivalutare gli spazi all’aperto, che hanno un effetto terapeutico naturale» suggerisce Anna Oliviero Ferraris.

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