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Depressione: se a provocarla fosse un’infiammazione?

Ne è convinto il neuroscienziato Edward Bullmore, pioniere della immuno-psichiatria. Lo abbiamo intervistato per capire quando e se avremo nuove armi contro la bestia nera delle patologie mentali

È un dato di fatto: gli attuali antidepressivi funzionano bene su meno della metà dei pazienti, mentre per tutti gli altri infelici non esiste una vera terapia. È un vuoto allarmante se, come sostiene l’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2030 il male oscuro sarà la principale causa di invalidità al mondo. Da oggi la speranza di colmare questo vuoto è riposta nei sorprendenti passi avanti compiuti dall’immunopsichiatria, la scienza che sta cercando l’origine di alcune forme di depressione (e di altri disturbi mentali) nel sistema immunitario.

«Circoscrivere il campo al cervello e sostenere che l’unica causa della depressione sia un basso livello di serotonina, è il grande errore della medicina moderna e il motivo per cui il progresso terapeutico è sostanzialmente fermo a trent’anni fa, quando si pensava che il Prozac andasse bene per tutti» sostiene Edward Bullmore, lo scienziato al centro delle nuove ricerche di immuno-psichiatria e autore del libro La mente in fiamme (Bollati Boringhieri). Oggi, invece, grazie ai successi scientifici di questo approccio rivoluzionario, sappiamo come anche un’infiammazione possa provocare disturbi dell’umore. È una scoperta che segna l’inizio di un modo completamente nuovo di pensare e curare la depressione.

La mente in fiamme (Bollati Boringhieri) è il saggio scritto dal professore Edward Bullmore per aiu

La mente in fiamme (Bollati Boringhieri) è il saggio scritto dal professore Edward Bullmore per aiutarci a prendere consapevolezza che c’è una connessione tra corpo, mente e cervello. Nel volume il neuroscienziato, che è stato anche ospite all’ultimo Festival della Mente di Sarzana, spiega con parole semplici come funzionano i meccanismi del sistema immunitario. Racconta le tappe dell’epopea di quei pochi medici che hanno avuto il coraggio di pensarla diversamente e lo fa ripercorrendo quegli studi che hanno trovato il nesso tra infiammazione e depressione.

Professor Bullmore, dopo vent’anni di ricerca, possiamo dire che l’immuno-psichiatria sia destinata a cambiare l’approccio alla depressione. Come ci siete arrivati?

«Migliaia di studi ci hanno fornito risultati chiari e coerenti. L’esperimento forse più significativo, vista l’ampiezza del campione, è stato quello che ha coinvolto oltre 70.000 abitanti di Copenaghen. Tra loro una parte aveva lievi sintomi di depressione, gli altri invece non avevano mai provato questo tipo di tristezza. Dai dati è emerso che maggiore era il livello di infiammazione nel corpo (indicata dalla concentrazione nel sangue di Pcr, proteina C reattiva), maggiori erano i pensieri negativi e autocritici. Sempre questo studio ha calcolato che la probabilità che questa relazione fosse fortuita era inferiore a 1 su 1000 miliardi. Era l’ultima evidenza che mancava per convincere tutto quel mondo abituato a tenere ben distinta la psichiatria dal resto della medicina».

E lei quando ha messo in dubbio l’approccio tradizionale?

«Erano gli anni Novanta e ancora tirocinante visitai un signore che si sentiva depresso. Gli dissi che gli avrei prescritto un farmaco di tipo SSRI, come il Prozac, così lo scompenso di serotonina nel cervello sarebbe tornato nella norma, a beneficio dell’umore. È allora che il paziente mi chiese come facessi ad avere la certezza che i livelli fossero bassi. Ricordo chiaramente il mio imbarazzo nel non sapere cosa rispondere. Tale vicenda rappresentò una prima crepa nelle mie certezze da studente e il motivo per cui iniziai a fare ricerca. Pensi che i biomarcatori della serotonina nel sangue probabilmente non sono molto rappresentativi dei livelli della sostanza nel cervello e quindi non permettono di diagnosticare in modo attendibile la depressione o di prevedere la risposta agli SSRI. Sarebbe forse più affidabile prelevare un campione di liquido cerebrospinale attraverso una puntura lombare, un esame che però èmolto invasivo e doloroso. A conti fatti quindi di questo neurotrasmettitore la medicina ha solo scoperto l’importanza nel regolare funzioni cerebrali che appaiono disturbate nelle persone depresse. Ma in pratica in questo campo ancora oggi ci muoviamo per deduzioni, sperando che i farmaci funzionino».

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Ma esattamente come agisce questo nesso tra depressione e infiammazione?

«In parole semplici, quando è in corso un processo infiammatorio molecole proteiche rilasciate dal sistema immunitario, le citochine, superano la barriera tra corpo e cervello, trasmettono l’infiammazione ai neuroni e alle reti cerebrali, diminuendo la quantità di serotonina rilasciata dalla sinapsi e l’elasticità delle connessioni. Ed è la ragione per cui ci sentiamo tristi e annebbiati. Inutile dire che una contusione avrà effetti sull’umore ben meno intensi e persistenti di un’artrite reumatoide. E va chiarito che gli studi di immunopsichiatria non provano che chiunque abbia uno stato infiammatorio in corso debba essere anche depresso. È proprio l’assunto che la causa del disagio mentale sia per ognuno diversa a rendere interessante e innovativa questa scienza».

Quali miglioramenti porterà questo cambio di prospettiva?

«Chi risponderà positivamente al nesso causa-effetto tra le due manifestazioni, potrà contare su farmaci di nuova generazione, meno invasivi e capaci di agire contestualmente su infiammazione e depressione. Purtroppo siamo ancora agli albori. I primissimi esperimenti sui farmaci stanno iniziando in questi giorni, proprio qui nei laboratori di Cambridge, ma ci vorranno almeno dieci o quindici anni per vederli in commercio. Inoltre ancora non è stato inventato un biomarcatore capace di dire se la nostra depressione, o quella di un familiare, è di origine infiammatoria. Quando ci sarà, basterà un esame del sangue per saperlo».

Stiamo parlando di cure ed esami che vedranno i nostri figli. Oggi su cosa possiamo contare?

«Ci sono ormai evidenze che chi soffre di infiammazioni importanti e croniche ha buone probabilità di manifestare sintomi depressivi. È il caso, per esempio, di chi ha l’artrite o di chi è molto sovrappeso. È poi provato come anche lo stress abbia delle ricadute infiammatorie, ciò significa che chi è molto ansioso potrebbe ricadere tra i depressi “da infiammazione”».

Che ruolo ha la psicoterapia in questo nuovo approccio?

«A livello generale, avere un buon controllo sui nostri pensieri e saper tenere a bada l’ansia, quindi l’infiammazione, è fondamentale per interrompere quel circolo vizioso. In questo caso percorsi terapeutici ad hoc o anche la meditazione possono aiutare».

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Il nostro mese della prevenzione: la depressione

Nel mese di ottobre risponde il team del Dipartimento assistenziale integrato salute mentale e organi di senso, dell’AOU senese diretta da Andrea Fagiolini. Per tutto il mese puoi telefonare il martedì e il giovedì dalle 14 alle 17 allo 0577586391. Oppure inviare una email a [email protected].

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