La musica migliora la dislessia

Chi è dislessico può migliorare se impara a leggere la musica, quindi a suonare uno strumento. Ma per arrivarci, ci vogliono anche gli insegnanti giusti 

Che la musica faccia bene quasi e forse più della classica mela al giorno è ormai un dato appurato. I suoni fanno parte della nostra esperienza fin dalla vita prenatale e sono ormai innumerevoli gli studi che dimostrano quanto questi incidano sull’umore, sulla calma e sull’agitazione.

Facciamo attenzione, però, a non fare informazione romantica ma sbagliata. Non è la musica intesa come mero ascolto a far bene al dislessico (la musica fa bene a tutti): è fare musica, entrare nella partitura, studiarla, che fa bene e produce risultati importanti anche negli ambiti non legati direttamente ad essa.

Mauro Montanari è pianista e docente diplomato al master “Didattica musicale, Neuroscienze e dislessia” al conservatorio Verdi di Milano e la sua attività è dedicata proprio a chi ha un Dsa. Nulla di tremendo o contagioso, come spieghiamo bene nel nostro speciale Dislessia: cos’è, come affrontarla.

Si tratta di un disturbo specifico dell’apprendimento (dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia) che non ha nulla a che fare con problemi cognitivi legati alla comprensione e non è causato da deficit dell’intelligenza o da problematiche ambientali o di tipo psicologico.

Non basta ascoltare la musica, bisogna farla

“Sicuramente l’ascolto della musica giova all’umore e ai disagi ma non agisce di per sé, migliorandolo, sul disturbo dell’apprendimento. Ho intitolato un mio convegno Suonare per leggere, leggere per suonare, in cui ho collegato la lettura del linguaggio parlato all’esercizio del suonare, suonare uno strumento e saper leggere la notazione correlata. Poter suonare uno strumento a orecchio non basta. Per intervenire sul disturbo dell’apprendimento è necessario entrare nel linguaggio delle note. Il metodo ovviamente deve essere adeguato, il metodo di insegnamento musicale tradizionale non si adatta a chi ha un Dsa. I bambini che presentano questa neurodiversità sono davvero tanti, ciò vuol dire che siamo chiamati a dare risposte. La spettacolarizzazione dei fenomeni mediatici non deve farci dimenticare che nelle scuole o nei conservatori chi è più lento diventa un elemento di disturbo, fastidioso, per chi non ha gli strumenti per capire e intervenire, sia esso un insegnante o anche un compagno. Nel soggetto interessato si crea una grande sofferenza: oltre al disturbo si aggiunge il disagio di avere il disturbo. E il disagio dipende dal contesto: questo e non il disturbo in sé può veramente farti perdere la strada”

La musica è un motore cerebrale

“Le nuove tecniche di neuroimaging come per esempio la trattografia (risonanza magnetica) permettono di vedere le funzioni del cervello in movimento nei collegamenti degli assoni e dei neuroni e questo ha evidenziato come la pratica musicale mette in azione quello che si definisce network neurale. Questo induce a pensare che attività che nella media vengono espresse solo in certe aree del cervello, in chi studia musica vengono espresse da tutta la corteccia. È stato osservato che quando un musicista legge un testo alfabetico si attivano aree che in genere non lo sono ed è proprio questo che porta al miglioramento: lo spartito musicale è un insieme di segni che contiene informazioni dinamiche che vibrano nei loro addensamenti e nelle loro rarefazioni creando una sinergia tra teoria e prassi. Ma questo lo sappiamo da sempre, da sempre sappiamo che se uno studia musica può avere facilitazioni nella matematica e nell’espressività del parlato; la scienza, con le sue dimostrazioni e con i dati, sta solo rendendo più aulico quello che empiricamente era già chiaro”.

Adesso tocca alla pedagogia

“Bisogna riuscire a creare un travaso tra quello che la scienza ha scoperto e quello che la pedagogia può fare in modo pratico e accessibile. Il grande equivoco è credere che lo studio della musica faccia bene a prescindere dal metodo e dal modo: bisogna adottare un metodo in grado di creare un setting di apprendimento dove la persona possa compensarsi nel modo migliore possibile. Nel caso della persona con il disturbo da apprendimento la compensazione deve essere più raffinata e ingegnosa possibile e non deve essere ostacolata. Ci tengo a sottolineare che in molti casi non ci troviamo davanti a casi di disturbo di apprendimento ma a casi di disturbo di insegnamento; l’allievo deve poter gestire al meglio il suo disturbo per poter spendere il suo budget di energie in modo che questo non si esaurisca prima che venga raggiunto un livello almeno sufficiente di soddisfazione. La posta in gioco è alta, si rischia che l’allievo abbandoni, si arrenda. E questa è una sconfitta di tutti, la perdita di una grande opportunità individuale e umana. Le istituzioni devono fornire i mezzi necessari e mantenere le promesse ma quello che conta di più è la rivoluzione individuale: ciascun insegnante di musica abbia l’interesse di formarsi sui nuovi stili di apprendimento facendo corsi di aggiornamento per sviluppare la conoscenza dei processi più che dei metodi. La fatica non deve essere interpretata come debolezza ma come una disfunzione che può essere evitata. Se si fa troppa fatica vuol dire che il setting di insegnamento è inadeguato. Nella mia lunga esperienza ho sempre potuto riscontrare che se si generano condizioni adeguate il supporto della musica è straordinario: il successo è nel leggersi come esseri umani nel flusso olistico della propria coscienza, in questo flusso ci sono anche i sentimenti, le emozioni, i progetti. La risultante non è un voto o un brano ma un vissuto. È un successo del vivere, l’esperienza della musica”.

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