Fibromialgia: quando colpisce i bambini

Anche adolescenti e bambini, soprattutto femmine, possono soffrire di fibromialgia: i sintomi, come riconoscere la malattia, la difficoltà della diagnosi, lo specialista di riferimento, le terapie utili, l'atteggiamento mentale che aiuta

Secondo gli ultimi dati, nel mondo soffrono di fibromialgia quasi 150 milioni di persone. Solo in Italia, due milioni. Di questi, la maggior parte sono donne, come testimoniano anche le vostre storie. Ma non si tratta solo di persone adulte: il 7 per cento è rappresentato da ragazze tra i 13 e i 15 anni e circa l’1 per cento sono bambine. Bambine che soffrono di dolori inspiegabili e che spesso i pediatri non riescono a riconoscere. Se infatti la fibromialgia è piuttosto difficile da diagnosticare in età adulta, lo è ancora di più in età pediatrica. Senza contare che è una malattia di cui si parla ancora poco.

Crescere da malate sentendosi sane

Noi abbiamo deciso di occuparcene perché ci ha raggiunto in redazione la lettera di una giovane donna, Silvia Casetta, che oggi è adulta, moglie e mamma: ha 39 anni e due figli di sette e nove anni. Lavora come insegnante e solo nel 2017 ha avuto la diagnosi di fibromialgia, ma lei ricorda di essere stata sempre male, addirittura da quando aveva sei anni. Nessuno ha mai capito cosa avesse, fino appunto a due anni fa, dopo innumerevoli interventi chirurgici, quando finalmente un reumatologo ha formulato la diagnosi dando un nome a tutti i suoi disturbi, anche psicologici. «Gran parte delle persone della mia generazione che ha dovuto convivere fin da piccina con questa sindrome, ha vissuto consapevole dei propri limiti ma tentando sempre di superarli. Siamo cresciute sentendoci malate ma credendoci sane, quindi con l’ambizione continua di sembrare normali, all’altezza, come tutti gli altri. E invece eravamo, siamo diverse».

I disturbi dei bambini

Le parole di Silvia esprimono una condizione tipica di molte ragazzine con una fibromialgia non riconosciuta: il senso di inadeguatezza fisica, che spesso dà vita anche a una bassa autostima, alla sensazione di non essere capace, di non essere mai all’altezza. «Tornando a casa dal campo estivo, sotto il sole di mezzogiorno – racconta Silvia – percorrevo la salita che dal centro del paese porta alla zona alta. Faticavo, procedevo a testa china, le gambe mi tremavano e sudavo, sudavo, sudavo… I soliti dolori alle caviglie, al collo, ai polpacci, alcuni come la presa dei denti di un cagnolino. E poi dolori addominali, alla zona lombare, la vista offuscata. Davanti a me, un’anziana curva sul suo bastone, e io pensavo: “Povera signora! Se io, così piccola e sana, per percorrere una salita così, soffro in questo modo, chissà come starà male lei!”. Ma lei, con passo deciso e sincopato, avanzava, senza una goccia di sudore. Già, io non sapevo di avere la fibromialgia».
Silvia ci racconta nella sua lettera di un’infanzia e un’adolescenza spese a cercare di convincere genitori, insegnanti, amici e medici che i suoi problemi avevano una causa precisa. «Non riuscivo a stare seduta per più di cinque minuti nella stessa posizione senza muovere continuamente gambe e piedi, non potevo reggere il collo dolorante, appoggiare il coccige sulla sedia, leggere senza addormentarmi, ricordarmi ciò che studiavo. Dormivo senza mai riposarmi, avevo cefalee continue e un’infinità di altri sintomi».

A scuola da malati senza sapere di esserlo

Non dev’essere stato facile fare una vita da bambina in mezzo agli altri bambini. «Impossibile camminare per più di 100 metri con i miei amici senza alcun fastidio, restare ferma per pochi minuti davanti a una vetrina o a chiacchierare con un’amica, assistere in piedi a un concerto, fare la coda per andare in bagno, partecipare a una corsa campestre, andare in gita senza far fermare il bus per la sosta in bagno, salire più piani di scale, impugnare la penna correttamente e scrivere per un tempo prolungato, riuscire a leggere alla lavagna, ricordare in maniera mnemonica». Persino frequentare il tempo pieno è un problema se sei un piccolo fibromialgico. «Ti trovi costretto a sopportare il caos acustico delle scuole e gli sbalzi termici a cui il tuo corpo fatica ad abituarsi. Se poi divertendoti in cortile inizi a sudare e non cambi almeno la canottiera, rischi di rimanere bloccato per giorni. Per non parlare della testa e dei capelli bagnati: persino con i 40 gradi di luglio dobbiamo asciugarceli con il phon».

I primi sintomi nei bambini

Ma il caso di Silvia è particolare o davvero la fibromialgia può presentarsi con tutti questi sintomi? «I disturbi possono comparire anche a sei, sette anni dopo un trauma fisico, un intervento chirurgico, un’infezione o uno stress psicologico significativo. In altri casi, i sintomi si accumulano gradualmente nel tempo senza un singolo evento scatenante. Nessun gene è stato ancora individuato ma spesso la malattia – perché di questo si tratta – è ricorrente nella stessa famiglia» spiega la dottoressa Giovanna Ballerini, algologa, specialista in fitoterapia presso il Centro multidisciplinare di Terapia del dolore dell’Ospedale Piero Palagi di Firenze e presidente del Comitato scientifico dell’associazione CFU Italia. «I bambini, come gli adulti, soffrono di dolori muscolo scheletrici, accompagnati da problemi di affaticamento e stanchezza, sonno disturbato, spesso interrotto e riduzione del tono dell’umore. Le variazioni climatiche e di umidità e le modificazioni ormonali del periodo dell’adolescenza acutizzano i disturbi. Durante il ciclo mestruale – nel caso delle ragazze – o in periodi di stress fisico o psichico, la malattia diventa debilitante, tanto da compromettere la scuola ma anche la vita sociale e le amicizie».

Perché si diventa fibromialgici

Secondo gli ultimi studi esiste una predisposizione genetica su base familiare, cioè un’ereditarietà. «Alcuni geni a un certo punto si attivano, a causa di cambiamenti indotti dai neurotrasmettitori responsabili della percezione del dolore, come serotonina e adrenalina. Questi neurotrasmettitori alterano il meccanismo di percezione del dolore, che si estende a tutto il corpo» spiega la dottoressa Ballerini. Perché però questi geni si attivano? Quali condizioni, cioè, scatenano il loro risveglio? «Può trattarsi di infiammazioni, interventi chirurgici, infezioni. Ma anche di certe esperienze psicologiche: si è visto che anche queste sono in grado di modificare il nostro assetto genetico. Uno degli aspetti più studiati oggi è la neuroplasticità del cervello: l’ambiente, cioè, incide molto sulla sua morfologia. Ma incide anche sul dolore, la depressione, le emozioni, su come scegliamo le persone. Il contesto familiare, le esperienze possono incidere sull’area della felicità, tanto che alcuni psichiatri chiamano la fibromialgia “infelicità dolorosa”». E sono proprio le esperienze dei primi anni di vita a poter avere un ruolo determinante, capace appunto di “accendere” la malattia nelle persone geneticamente predisposte. «Si è visto che il cervello si modifica nei primi anni anche a causa dei traumi. Un’infanzia infelice, un’adolescenza difficile, possono determinare cambiamenti morfologici del cervello in grado di far sviluppare bassa autostima e depressione, tipiche del paziente fibromialgico. Alcuna persone invece reagiscono a questo senso di vuoto con l’iperattività che a un certo punto, spegnendosi, fa esplodere la malattia».

Come si riconosce la malattia e chi è il medico di riferimento

Se la diagnosi è difficile nell’adulto, nel caso dei bambini lo è ancora di più. «Spesso i sintomi della fibromialgia, soprattutto nell’esordio della malattia, sono simili al diabete e alla celiachia. Se in fase acuta, possono sovrapporsi a patologie come linfomi, sclerosi multipla, lupus, artrite reumatoide. Oppure capita che la fibromialgia si accompagni proprio a queste malattie» spiega l’esperta. «Il compito del medico sta nell’estrapolare i dati utili alla diagnosi dalla storia del paziente, quindi anche nel procedere per esclusione». Bisogna sempre fare un buon percorso per una diagnosi differenziale accurata. Niente deve essere trascurato e ogni segnale o sintomo ben valutato. «Lo specialista di riferimento è il pediatra. È lui che deve fare da coordinatore, inviando eventualmente il bambino presso il reumatologo e l’algologo».

Come si fa la diagnosi

Nel caso dei bambini, però, vista la brevità della loro storia, non esistono dati utili da comparare, che aiutino cioè a procedere per esclusione. Per questo si hanno a disposizione solo dei valori clinici, che comunque, nella diagnosi, si differenziano leggermente da quelli dell’adulto. «Nel paziente adulto i criteri diagnostici prevedono la presenza dei sintomi per almeno tre mesi, accompagnati dal dolore diffuso in 19 aree (prima si consideravano i tender point, ora questa valutazione è superata)» spiega la dottoressa Ballerini. «La difficoltà a effettuare la diagnosi nei bambini è che possono non risultare positivi alla pressione dei punti dolorosi. Non è facile farsi capire o capire i piccoli, senza contare che i sintomi possono anche essere sfumati. Quindi si utilizzano altri criteri: in presenza di esami ematochimici normali, il dolore dev’essere generalizzato in più di tre aree per più di tre mesi, colpire più di cinque gruppi muscolari ed essere accompagnato da disturbi come ansia, fatica durante il giorno, cefalea, stanchezza al risveglio, intestino irritabile, torpore, dolore durante lo sport, edema sottocutaneo».

La terapia per bambini e adolescenti

La fibromialgia non è un virus che si possa curare con un farmaco. È una malattia cronica, da cui non si guarisce ma che si può gestire, tenere a bada, controllare con lo stile di vita, l’alimentazione, l’attività fisica, certe terapie, anche farmacologiche che però non sono risolutive. Per questo occorre affidarsi a un team di specialisti tra cui un reumatologo pediatrico, uno psichiatra specializzato in terapia cognitivo-comportamentale, un fisioterapista, un massoterapista. Non esiste una ricetta magica, non si possono pretendere soluzioni ma occorre seguire un percorso integrato, che avvicini a una gestione della malattia in grado di mantenere una buona qualità della vita. «I farmaci antidolorifici possono aiutare a ridurre il dolore e gli antidepressivi a migliorare il sonno e il dolore. Purtroppo però questa classe di farmaci non è adatta ai ragazzini e agli adolescenti, perché non possono essere prescritti ai minori di quattordici anni. In questi casi è utile la terapia cognitivo-comportamentale che è in grado di migliorare il dolore cronico ed è utile alla stabilizzazione del tono dell’umore» spiega la dottoressa.

La terapia psicologico-comportamentale

Perché la terapia psicologica può essere di aiuto? Gli ultimi studi sugli adulti evidenziano come un’educazione fortemente orientata al senso del dovere, in molti casi sia in grado di creare uno stress emotivo tale da far sviluppare la malattia. Sono ipotesi che si stanno valutando e, in un’ottica di approccio integrato, spesso si propone proprio la terapia comportamentale per aiutare le pazienti a recuperare il senso del piacere di fare ciò che piace, e non solo ciò che si deve. In pratica, si cerca di rieducare la persona a fare le proprie scelte orientandole non solo sul senso del dovere, ma anche del piacere.

Le terapie fisiche

L’attività fisica è di fondamentale importanza per l’effetto positivo sull’umore e distensivo sui muscoli. «Inizialmente l’esercizio fisico può aumentare il dolore ma con la regolarità, almeno bisettimanale, i sintomi diminuiscono. Le attività da preferire sono passeggiate, nuoto, ciclismo e aerobica in acqua» conclude l’esperta. «Un fisioterapista è sicuramente di aiuto a creare un programma di esercizi da fare a casa.  Anche lo stretching, la buona postura e gli esercizi di rilassamento oltre al controllo della respirazione, sono utili. La terapia fisica e il massaggio con creme alla capsaicina possono alleviare alcuni dolori muscolari attraverso il caldo rilasciato dalle creme». 

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