Serve ancora scendere in piazza con i gilet gialli?

Il "successo" dei Gilet gialli fa riflettere: i nuovi movimenti nascono apparentemente dal nulla, ma riescono a influire sulla politica in modi inaspettati

Hanno invaso la Francia, bloccato le strade, costruito barricate e finte ghigliottine con cui “decapitare” il presidente Emmanuel Macron. E sabato 8 dicembre hanno protestato in 125.000 a Parigi e in altre città, scontrandosi con la polizia. Nati da un tam tam sui social, in un mese i gilet gialli (che prendono il nome dal giubbino diventato simbolo della protesta) hanno portato a casa una moratoria di 1 anno all’aumento delle tasse sulla benzina.

Non solo: lunedì sera il presidente ha tenuto un discorso alla nazione in cui ha riconosciuto i motivi della protesta, «la collera è giusta» ha detto, prendendosi «la sua parte di responsabilità per aver dato l’impressione di non ascoltare [il malessere dei francesi, ndr], di avere altre priorità» e dicendosi dispiaciuto se le sue parole «hanno ferito molti fra voi». Macron ha inoltre annunciato delle misure speciali per il 2019, confermate oggi dal premier Edouard Philippe: a partire dal 2019 il salario minimo aumenterà di 100 euro al mese, gli straordinari saranno esentasse così come i premi di fine anno che le imprese decideranno di pagare ai lavoratori. Il presidente, inoltre, ha promesso di tagliare le tasse ai pensionati.

L’abbassamento dei toni del presidente, che fino ad ora si era dimostrato molto duro con i manifestanti, ha ottenuto reazioni miste: in molti ci vedono un passo avanti verso le trattative, ma per ora i gilet gialli non hanno ritirato le proteste. C’è inoltre preoccupazione per lo sforamento del debito, come spiega La Repubblica.

Un successo che fa riflettere

I nuovi movimenti nascono apparentemente dal nulla, ma riescono a influire sulla politica in modi inaspettati. Dai Forconi siciliani, che nel 2011 volevano tagli ai costi della politica, alle manifestazioni contro la corruzione in Brasile, fino ai No Tav che in Piemonte sono tornati a chiedere il blocco della Torino-Lione «al M5S perché l’avevano scritto nel loro programma», non è difficile individuare punti in comune. Spiega il sociologo Domenico De Masi: «Primo: sono acefali, cioè non hanno leader. Secondo: hanno un’agenda molto fluida. Terzo: come compaiono così scompaiono, magari per tornare sotto altra forma. Quarto: li ritroviamo in molti Paesi del mondo».

Alcune volte, come nel caso delle recenti proteste italiane “dal basso”, gli esiti sono altalenanti: «Più che alla piazza Sì Tav torinese, dove c’era un coordinamento, penso alle manifestazioni studentesche che hanno portato in strada decine di migliaia di giovani ma sono state snobbate dai media» dice il sociologo. Benché il loro contenuto fosse esplicitamente più politico rispetto ad altre esperienze.

Compresa quella in Francia, dove invece la rivolta ha avuto successo. Perché? «La banalità del “nemico” iniziale – i costi elevati della benzina o la corruzione – rende tutto più trasversale e mediaticamente facile». I movimenti spesso nascono da rivendicazioni che sono quasi pretesti, sbilanciati rispetto alla realtà come è tipico di un certo populismo: «Non è tenendo bassi i prezzi del carburante che si risolvono i problemi» conclude De Masi. «Ma dietro agli slogan si nascondono obiettivi politici reali: nel caso francese, far cadere il governo Macron e dare slancio alla destra di Marine Le Pen».

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