Educare alla gentilezza conviene

Insegnare ai propri figli a essere gentili non è solo una cosa giusta. È un investimento per il loro futuro perché li aiuterà a stare bene e ad avere successo nella vita e nel lavoro. L’invito alla “rivoluzione delle buone maniere” arriva sia dalle tante associazioni che si apprestano a celebrare la Giornata della gentilezza (13 novembre) sia dalle ultime ricerche scientifiche che giungono tutte alla stessa conclusione: chi studia e lavora con il sorriso è più produttivo, popolare ed efficace. Ma le buone notizie non finiscono qui: un altro test apparso recentemente sulla rivista Neuroimage ha spiegato che trattare bene gli altri fa bene anche a noi stessi. Con la risonanza magnetica si è visto che quando compiamo un gesto gentile, nel cervello si attivano le aree legate alla ricompensa e al piacere, quelle pronte a regalarci sensazioni positive. Ma come si può trasmettere questa attitudine ai ragazzi di oggi? Lo abbiamo chiesto a tre esperti.

«Oggi essere gentili significa essere ribelli»

Saverio Tommasi, scrittore e reporter di fanpage.it, ha dedicato alle due figlie il libro “Siate ribelli, praticate gentilezza” (Sperling&Kupfer)

«Gentilezza è una delle parole cui sono più affezionato, è qualcosa di godereccio, ha il sapore di pane appena sfornato, del vino buono in compagnia; aiuta ad aprirsi, spalanca porte chiuse da tempo, butta giù pure qualche muro. Ultimamente però ci hanno rapinato del suo significato. Gentile è frainteso con debole, influenzabile, scialbo. In realtà, esserlo oggi vuol dire essere ribelli, in una società che ha fatto dei muri uno status; è un affare per forti d’animo, per attivisti dei sentimenti, che hanno capito che quando si è gentili, si vive meglio, noi e gli altri. Perché dobbiamo bere? Perché se no si muore. Lo stesso vale per la gentilezza, muore dentro chi la tiene sotto le scarpe. Come la lettura, però, non si insegna, si pratica. Non spingi i figli a leggere con le ramanzine o l’indice teso, ma con una casa piena di libri. Praticarla è sorridere al casellante non per avere uno sconto, ma per un’umanità necessaria. È entrare nella vita delle mie figlie con domande che non abbiano il retrogusto dell’ordine. “Mi racconti cosa hai fatto?” funziona meglio di “Fammi vedere i compiti”. È insegnare loro la vita, spingendole ad aprirsi alla vita».

 

«Chiediamo più spesso ai figli: “Cosa proveresti se qualcuno lo facesse a te?”»

Piero Ferrucci, filosofo e psicoterapeuta, ha scritto vari libri, tra cui “La forza della gentilezza” (Oscar Mondadori). Ha due figli

«La gentilezza è una capacità innata dell’uomo, cruciale per l’evoluzione: quando nasciamo, non ce la caveremmo se gli adulti non fossero gentili con noi. E da adulti, più ci agevoliamo l’un altro, maggiori chance abbiamo di vivere bene ed evolvere, come singoli ma anche come società. Studi alla mano, le persone gentili sono più longeve, vanno meno in psicoterapia e hanno più successo negli affari. Essendo una dote innata, però, noi genitori non dobbiamo “spiegarla” ai figli, ma far sì che si allenino a usarla. Come? Cercando di essere presenti e attenti nella loro quotidianità. Oggi viviamo nell’era della distrazione, troppe volte distogliamo lo sguardo da chi ci parla, attratti da un bip; ma per un bimbo sono sgarbi dolorosi. A lungo andare lo spingono a chiudersi e a fare lo stesso, non curarsi cioè di chi ha di fronte. E poi, dobbiamo aiutarli a sviluppare l’empatia. Fin da piccoli non limitiamoci a dire: “Non si fa”, ma chiediamo: “Cosa proveresti se qualcuno lo facesse a te?”. Se impara a riflettere sugli effetti delle sue azioni, potrà dosarle meglio».

«Sforziamoci di essere platealmente gentili con i ragazzi»

Isabella Milani, docente e blogger (professoressamilani.it), autrice tra gli altri di “Maleducati o educati male?” (Vallardi)

«I ragazzi oggi hanno perso il senso e il valore della gentilezza. Noi insegnanti lo vediamo ogni giorno in aula. Spesso sono sgarbati, usano toni e parole sgradevoli senza rendersene conto. Il motivo? Viviamo in una società che sbandiera il turpiloquio e le offese come libertà di parola. E che modello vedono in famiglia? Quanti genitori zittiscono i professori in assemblea o li deridono alle spalle. E siccome i ragazzi sono spugne e apprendono per imitazione, crescono convinti che l’approccio aggressivo sia l’unico possibile. Spetta a noi quindi correre ai ripari, offrendo ai nostri figli un modello alternativo di comportamento. Da un lato, sforzandoci di essere platealmente gentili con loro e, davanti a loro, usando le attenzioni, i sorrisi, i “grazie”, che rendono migliori i rapporti e la vita».

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