L'attrice Jane Birkin a fine agosto 2021, pochi giorni prima dell'ictus che l'ha colpita a settembre
L'attrice Jane Birkin a fine agosto 2021, pochi giorni prima dell'ictus che l'ha colpita a settembre. La famiglia l'ha rivelato diversi giorni dopo, per proteggere la sua convalescenza, parlando di una "leggera forma di ictus" e rassicurando sulle sue condizioni di salute

Ictus: anche 15 minuti fanno la differenza

Il 29 ottobre è la Giornata mondiale contro l’ictus cerebrale. E quest’anno si apre con una buona notizia sulle terapie: in alcuni casi aumenta il tempo utile per intervenire. Ma attenzione: agire sui fattori di rischio è il passo più importante

Una scoperta può cambiare il destino di chi, colpito da un ictus, arriva in ospedale oltre le sei ore dall’inizio dei disturbi. Cioè quando non servono più le terapie utilizzate per liberare l’arteria dal trombo oppure dall’embolo e far riprendere la circolazione del sangue.

C’è più tempo, in alcuni casi

A dimostrarlo sono due studi: in alcuni casi esiste una finestra temporale maggiore, che permette di agire fino a 16 ore dopo l’attacco. «Quando arrivano in pronto soccorso, tutti i pazienti vengono sottoposti a una TAC cerebrale» spiega Massimo De Sette, direttore della Neurologia del Policlinico San Martino di Genova. «Se l’esame evidenzia che il tessuto cerebrale non ha ancora subito danni e la persona ha sintomi da non oltre 4 ore e mezza, procediamo alla terapia con trombolisi endovena. In caso di esordio dei sintomi oltre tale finestra temporale, effettuiamo subito una TAC perfusionale, che consente di valutare il rapporto tra zona già danneggiata e area con basso flusso ma ancora “salvabile” del cervello. Se l’area già danneggiata è molto più piccola rispetto a quella “salvabile”, si è scoperto che possiamo eseguire la trombolisi purché entro le nove ore dall’attacco, oppure la trombectomia meccanica nel lasso di tempo tra le nove e le 16 ore. Anzi, in rari casi, esiste un tempo dilatabile fino alle 24 ore». Non è poco. La trombolisi venosa, un farmaco che scioglie rapidamente il coagulo, funziona entro le quattro ore e mezza dall’attacco, mentre la trombectomia può essere utilizzata fino a sei ore dall’attacco e consiste nel “catturare” il trombo tramite un catetere introdotto all’interno dell’arteria colpita.

Bisogna agire subito: anche 15 minuti fanno la differenza

Purtroppo bisogna però raffreddare gli entusiasmi. Le finestre temporali sono un’eventualità per pochi casi selezionati e al momento sono ancora in corso gli studi per valutarne i numeri. «Non dobbiamo stancarci mai di ripetere che il tempo è il grande nemico dell’ictus ed è per questo che bisogna sempre agire in fretta», sottolinea il professor Del Sette. «Perché prima si interviene, maggiore è l’efficacia delle terapie. Studi consolidati hanno dimostrato che la mortalità, il rischio di emorragie intracraniche e le disabilità permanenti diminuiscono in maniera significativa ogni 15 minuti giocati in anticipo sull’ictus».

I sintomi dell’ictus

È imperativo, dunque, chiamare subito il numero delle emergenze della propria Regione, solitamente il 112.  Può trattarsi di ictus se la persona che è con noi improvvisamente non ha più forza a un lato del corpo, oppure si esprime con difficoltà, o ancora, ha un fortissimo mal di testa, o al violento dolore segue uno svenimento. E niente soccorsi fai-da-te: anche un sorso d’acqua può essere dannoso in questi casi, perché la persona potrebbe avere difficoltà di deglutizione causate dall’ictus stesso.

L’ictus nel libro di Andrea Vianello

Il fattore tempo è determinante, anche perché prima si interviene e maggiori sono gli effetti positivi della neuroriabilitazione, che tutti i pazienti devono effettuare fin dal primo momento dal ricovero in Stroke unit, e proseguire poi per tutta la durata della degenza. Si tratta di un mix di esercizi per riprendere a parlare bene, a camminare, insomma, per tornare alla vita.  E che sia possibile lo dimostra anche Andrea Vianello. Il noto giornalista, direttore Rainews, ha avuto un ictus cerebrale e ha raccontato la sua esperienza con la malattia nel libro “Ogni parola che sapevo” (Mondadori). Una storia scritta a mano, con molta fatica, ma con tenacia, con la descrizione di ogni istante, dalla mano che non rispondeva più ai comandi, alla corsa in ambulanza, al risveglio in ospedale con tutte le frasi al loro posto nel cervello, ma non all’atto pratico, con i vuoti di memoria, e con il percorso faticoso della lunga riabilitazione che lo ha riportato quest’anno al suo lavoro di giornalista. Proprio per la sua malattia e la sua capacità di condividere con gli altri il suo percorso, quest’anno Andrea Vianello è diventato Presidente di A.L.I.Ce. Italia Odv, Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale.

Le manovre al collo alla base dell’ictus in casi molto rari

Nel caso di Andrea Vianello, sembra che a causare l’ictus sia stata una manipolazione al collo. Sono casi rari, che riguardano meno del 10% del totale degli ictus. I tuffi di schiena, i traumi al collo, possono causare infatti una lesione alla parete della carotide o dell’arteria vertebrale, con la formazione di un “coagulo” che riduce il calibro del vaso. Si interrompe così il flusso di sangue in una zona del cervello, esattamente come accade per i trombi nella forma di ictus tradizionale. La differenza? Nel caso della dissezione, il danno alla parete dell’arteria si sviluppa molto rapidamente. Mentre per l’ictus tradizionale, ci vogliono anni prima che si formi la “placca” aterosclerotica all’interno dell’arteria, a causa di fattori di rischio trascurati.

I fattori di rischio per l’ictus

Un dato dovrebbe far riflettere ed è quello che ha divulgato la World Stroke Organization: in 9 casi su dieci, l’ictus potrebbe essere evitato correggendo proprio  i fattori di rischio. E si può cominciare subito. Tra chi pratica costantemente attività sportiva tutti i giorni per 30 minuti, ad esempio, il pericolo si riduce del 25%. I rischi calano anche se non si beve abitualmente alcol e se si seguono le regole dell’alimentazione mediterranea. E anche smettere di fumare ha un ruolo importante. «Lo stile di vita ha azioni dirette e indirette», sottolinea il professor Del Sette. «Aiuta il calo dei chili di troppo e migliora i valori della glicemia, del colesterolo, dei trigliceridi e della pressione arteriosa, tutti fattori che remano contro la salute dell’apparato circolatorio. Inoltre, l’attività fisica in particolare migliora la qualità del sonno e combatte stress e ansia, altri fattori dannosi». 

Occhio alla fibrillazione atriale

Utile inoltre, dopo i 40 anni, un’analisi del sangue per verificare i valori della glicemia e del colesterolo, e misurazioni della pressione arteriosa. Se, nonostante i cambiamenti nello stile di vita, non ci sono miglioramenti, è bene ricorrere a terapie farmacologiche ad hoc. Attenzione anche alla fibrillazione atriale, un disturbo del ritmo cardiaco sottovalutato, nonostante la pericolosità. Dati alla mano, tra chi non sa di soffrirne, il rischio di ictus è moltiplicato per quattro. «È la forma di aritmia più comune», interviene Ciro Indolfi, Presidente SIC, Società Italiana di Cardiologia. «Si tratta di una contrazione disordinata dell’atrio sinistro, una camera del cuore, che causa irregolarità dei battiti. È una patologia grave perché può essere responsabile di tromboembolie. In pratica, a causa delle contrazioni anomale si può verificare un ristagno di sangue nell’atrio sinistro che porta alla formazione di coaguli, cioè di trombi, che possono immettersi nella circolazione sanguigna. Il rischio a questo punto è che uno di questi trombi ostruisca un’arteria del cervello e provochi per l’appunto un ictus».

Subito dal cardiologo se il battito è sempre accelerato

All’erta allora se il cuore è sempre accelerato, soprattutto se si è over 40. «Purtroppo c’è la tendenza a sottovalutare il disturbo», continua Indolfi. «Molte volte infatti si giustifica pensando che sia un momento di agitazione, oppure che la conseguenza di un pasto abbondante. È vero, queste possono essere le cause di un’alterazione sporadica del battito. Ma quando è pressoché sempre accelerato, è bene rivolgersi al cardiologo». Se gli esami confermano la diagnosi di fibrillazione atriale, la prima soluzione è rappresentata dai farmaci antiaritmici. Questi principi attivi stabilizzano gli impulsi elettrici anomali del cuore e lo aiutano a ritrovare la sua stabilità. «Infine, è necessario anche controllare gli altri fattori di rischio come lo scompenso cardiaco, la malattia coronarica, il diabete, i disturbi respiratori del sonno e, soprattutto, l’ipertensione arteriosa, perché in sette casi su dieci chi soffre di fibrillazione atriale è iperteso», conclude Indolfi. «E rivedere lo stile di vita, cioè dimagrire in caso di chili di troppo, fare regolarmente attività fisica, non fumare e non eccedere con l’alcol».

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