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Il velo è il simbolo di un regime che maltratta le donne. La colonna portante su cui si regge il potere degli ayatollah. Abolirlo potrebbe far crollare il sistema politico. Ecco perché le proteste degli ultimi due mesi sono epocali. Come ci spiega una studiosa che conosce molto bene l’Iran

L’articolo è di FARIAN SABAHI. Nata ad Alessandria da padre iraniano e madre piemontese, è studiosa dell’Iran e dell’Islam. Insegna “History and Politics of Contemporary Iran” alla John Cabot University di Roma. TRA I SUOI ULTIMI LIBRI: il testo per il teatro Noi donne di Teheran (Mimesis), un racconto in prima persona femminile sulla capitale iraniana e sui diritti delle donne; il saggio Storia dell’Iran 1890-2020 (Il Saggiatore), che ripercorre 130 anni di storia del Paese, tra religione, economia e diritti civili

DAL NULLA SPUNTANO POLIZIOTTI IN TENUTA ANTISOMMOSSA armati di scudo e maschera antigas, tipo gli scarafaggi delle Avventure dell’Ape Magà. Circondano la piazza. Il loro capo blatera di continuo dentro una radiolina. Deve essersi spruzzato in faccia lo spray anestetizzante, non muove un muscolo mentre parla». E ancora: «Dicono che siccome al commissariato non c’è più posto, hanno avuto l’ordine di menare». Potrebbe sembrare la cronaca delle proteste iraniane, invece si tratta del romanzo Non ti preoccupare della scrittrice iraniana Mahsa Mohebali (Ponte 33, 2013). Pubblicato in patria qualche mese prima del 2009, racconta le avventure di una ragazza tossicodipendente in una Teheran minacciata dal terremoto. Miracolosamente sfuggito alla censura, anticipa il tema del disagio generazionale che esploderà di lì a poco, con le proteste scatenate dai brogli nella rielezione del presidente ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad.

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Un sistema che maltratta le donne

Rispetto al 2009, le proteste innescate dalla morte violenta di Mahsa Amini lo scorso 16 settembre non interessano solo la capitale, ma anche le province. Mahsa, arrestata perché non indossava correttamente il velo, abitava nel Kurdistan iraniano, non nei quartieri chic di Teheran nord. Da allora le forze di sicurezza hanno ucciso oltre 300 mani- festanti e ne hanno arrestati migliaia. Quelle in corso sono le manifestazioni più importanti dalla rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata e significato. Il risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica, infatti, non è motivato solo dall’obbligo del velo di per sé. Il foulard che copre i capelli è la punta dell’iceberg di un sistema che maltratta le donne. I diritti delle iraniane sono sempre stati un percorso a ostacoli. In tribunale, la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo. Il risarcimento in caso di ferimento o morte violenta è del 50%. La figlia eredita mezza quota rispetto al fratello. Non è facile ottenere il divorzio e nemmeno la custodia dei figli minori. Per recarsi all’estero, la donna sposata ha bisogno del permesso scritto del marito.

Il codice di abbigliamento per le donne

A questa normativa si aggiunge, dal 1979, un severo codice di abbigliamento: pantaloni lunghi e ampi, manteau, foulard a coprire i capelli. Il velo è un sim- bolo ma, soprattutto, in Iran è un obbligo imposto dall’ayatollah Khomeini all’indomani dell’istituzione della Repubblica islamica nel 1979. Abolirne l’obbligo vorrebbe dire togliere una colonna portante di tutta la costruzione ideologica su cui si regge il potere degli ayatollah e, di questi tempi, soprattutto dei pasdaran, le guardie rivoluzionarie. L’obbligo del velo sta alla Repubblica islamica come il muro di Berlino stava al comunismo: se fosse tolto, potrebbe crollare tutto un sistema politico. All’obbligo del velo e alla mancanza di diritti si aggiungono la crisi economica e un approccio violento delle autorità nei confronti dei cittadini. La violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione. In questi 2 mesi le autorità della Repubblica islamica hanno cercato di evitare che i manifestanti uccisi dalle forze dell’ordine venissero seppelliti di giorno. Un po’ come nel romanzo Suvashun (Lamento funebre) di Simin Daneshvar, la decana della letteratura persiana femminile. Pubblicato nel 1969 e tradotto in italiano nel 2017, vi ritroviamo un elemento che caratterizza le proteste di queste settimane, ovvero le cerimonie funebri come occasioni per esprimere il dissenso. Le autorità dello scià cercano di impedire alla protagonista Zari di celebrare il funerale del marito, morto negli scontri con gli inglesi che nel 1941 occupano l’Iran, perché temono che possa sfociare in una grande manifestazione.

I libri delle donne iraniane sulla condizione femminile

«Nella lotta delle iraniane per maggiori diritti, la letteratura ha sempre il ruolo di registrare – con stili e trame diverse – la critica, l’insofferenza, la protesta nei confronti di un sistema patriarcale e penalizzante verso le donne. E soprattutto registra la voglia di libertà ed evasione delle iraniane» commenta Giacomo Longhi, traduttore dal persiano. Già negli anni ’80 Shahrnush Parsipur muove critiche dirette al patriarcato. «In Donne senza uomini» continua Longhi «tesse una sottile satira sociale attorno all’ossessione per la verginità femminile. E in un altro romanzo, Tuba e il senso della notte, la protagonista divorzia diverse volte e alla fine conquista l’indipendenza economica e sociale diventando tessitrice di tappeti». Negli anni 2000 «prevale una “letteratura d’appartamento”, intimista, ambientata tra le mura domestiche. Registra i desideri di casalinghe, madri, lavoratrici, e spesso una critica verso figure maschili (soprattutto mariti), che sfuggono alle loro responsabilità o sono incapaci di ascoltare le richieste delle mogli». Dal 2010 in poi compaiono libri dove si osa di più, in cui le protagoniste non sono confinate in luoghi chiusi. In Probabilmente mi sono persa di Sara Salar (Ponte33, 2014) una donna 30enne va su e giù per le autostrade della capitale descrivendo una metropoli ossessionata dal consumismo. In Tehran Girl di Mahsa Mohebali (Bompiani, 2020) l’io narrante è una giovane segretaria che descrive in modo libero la propria sessualità e le sfide che le pone una società maschilista e capitalista. Per ricchezza delle tematiche e le sue 400 autrici, la letteratura persiana può quindi aiutare a comprendere il lungo percorso di emancipazione che porta le iraniane a con- testare apertamente le istituzioni della Repubblica islamica.

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