L’Italia non è (solo) il Paese del rancore

L’ultima indagine Censis parla di un’Italia piena di rancore. Uno scrittore d’eccezione analizza per noi le ragioni di tanto risentimento. Che giudica sterile, perché evita il confronto e le possibili soluzioni

Sfiduciati, impauriti, mortificati, incapaci di esprimere apertamente la propria rabbia ma anche di dimenticare e di perdonare: in una parola, rancorosi. Così il Censis dipinge gli italiani. «La ripresa economica c’è e l’industria va. Ma non si è distribuito il dividendo sociale di questa ripresa e il blocco della mobilità sociale crea rancore» rileva l’istituto di ricerca che ogni anno fotografa la situazione sociale del Paese. Un fenomeno non certo nuovo, ma che ora investe anche il ceto medio e che può essere un problema per chiunque governerà (e non solo).

Se nel 2017 avete avuto la sensazione di vivere in un Paese dove il risentimento regna sovrano

e a una legittima ansia di riscatto si è sostituito il puro e semplice rancore, non siete dei paranoici accecati dalla sindrome d’accerchiamento. È l’ultimo rapporto Censis a fotografare un paese che, a dispetto della pur lieve ripresa economica, ritiene che il futuro sarà prodigo di cattive notizie. Gli adulti della classe media temono lo scivolamento tra i gironi della povertà, mentre i giovani sono convinti che studiare sodo non smuoverà troppo l’ascensore sociale dentro il quale si sentono più che altro appesi a un filo. I timori non sono campati per aria. Ma il passo successivo per alcuni è un odio privo di destinatario certo: la paura di stare peggio genera rabbia, e la rabbia tende a scagliarsi contro entità (a seconda dei casi sono il governo, la classe dirigente, i migranti, i buonisti, i radical chic, i berlusconiani, i comunisti, i grillini…) più simili ad astrazioni che a soggetti reali con cui imbastire un confronto, e persino uno scontro che porti a qualche risultato. Siamo messi talmente male da ridurre gli altri alla categoria che ci illudiamo li esaurisca, e scarichiamo su di loro (cioè su nessuno) la nostra rabbia.

Per avere un’idea della temperatura emotiva da cui siamo circondati, basta farsi un giro nei social

Su Twitter e Facebook la violenza verbale è diffusa, non vuole sentire ragioni, e ha bisogno di un nemico da distruggere. Preferisce il dogma alla complessità, è incapace di mettersi nei panni altrui, gode nel procurare umiliazioni da cui non trae alcun vantaggio, fa confusione tra nemici e capri espiatori. Soprattutto, il rancoroso del XXI secolo è abbagliato dal mito della purezza. Gli italiani, per lui, sono sempre gli altri. Non c’è dubbio che il nostro Paese abbia fronteggiato male la crisi che negli ultimi anni ha stravolto mezzo mondo. Siamo spesso governati da uomini modesti, abbiamo una classe dirigente non sempre preparata, una burocrazia infernale, una corruzione allarmante, un avvilente disprezzo del merito. Siamo egoisti e poco lungimiranti, visto che abbiamo riservato alle nuove generazioni il peggior trattamento mai visto dalla fine della guerra. I successi altrui alimentano più invidia che emulazione. Siamo miopi persino nei nostri sentimenti tristi: in Italia poche famiglie milionarie detengono un quinto delle risorse del paese, la forbice tra ricchi e poveri continua ad allargarsi, e noi puntiamo il dito contro i migranti senza i quali (fonte Inps) non riusciremmo a pagare le pensioni dei nostri padri. Ciò nonostante, possiamo ancora definirci una democrazia. La libertà di movimento e di parola non ci sono precluse. Siamo tra le dieci economie più grandi del mondo. Sappiamo esprimere una socialità e un calore umano di cui sentiamo la mancanza altrove. Arte e cultura non mancano. Da un po’ di tempo a questa parte l’economia ha ripreso addirittura a crescere. Disparità e ingiustizie sono aumentate, ma su questo bisogna lottare in modo serio, non limitarsi ad avvelenare l’aria a colpi di risentimento.

Siamo insomma un paese che può ancora decidere del proprio destino

La rabbia è un buon carburante quand’è al servizio della giustizia sociale. Ma chi si fa rodere ciecamente dal rancore fa ancora parte del problema. Da un lato aspira a essere la vittima perfetta (dell’aspirante vittima ha l’ebbrezza del sentirsi l’oggetto di un danno da restituire con gli interessi, facendo nascere il sospetto che il diritto alla vendetta gli importi più dell’offesa subita), mentre dall’altro è convinto di non avere alcuna responsabilità per i problemi che affliggono un contesto a cui si illude di non appartenere. Ma siamo tutti parte della comunità che critichiamo. E tutti possiamo fare qualcosa per migliorare lo spicchio di mondo in cui agiamo quotidianamente. Viviamo tempi difficili, ma il rancoroso assoluto strumentalizza questa difficoltà per non mettersi in gioco. Impegnato nell’unica pratica che gli interessa (schiumare rabbia contro un nemico davanti a cui farà in modo di non trovarsi mai davvero) non si rende conto che la sua è una scabrosa dichiarazione di impotenza. Sì, il rancoroso assoluto è anche un impotente sociale. Si stima così poco da credersi sempre più piccolo dei problemi (e dei nemici) di cui si lamenta. Non perde neanche il tempo a rimboccarsi le maniche, tanto sa che è inutile. Da bravo impotente sociale, invoca l’uomo della provvidenza. Lo immagina come un vendicatore, per meglio dire un dittatore. Non è una buona notizia. Lottare per i propri doveri, oltre che per i sacrosanti diritti, assumere su di sé le responsabilità di cui lamentiamo la cattiva gestione: ecco il miglior augurio che si possa immaginare per un 2018 migliore dell’anno che l’ha preceduto.

Nicola Lagioia ha vinto il premio Strega con il suo ultimo romanzo, La ferocia, tradotto in più di dieci paesi, e appena pubblicato anche negli Stati Uniti con il titolo di Ferocity. È una delle voci di Pagina3, la rassegna culturale quotidiana di Radio3. Dall’anno scorso è il direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino.

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