Large Family
30th June 1914: Mr and Mrs Terry of Greenwich, London, with part of their family of nineteen children. (Photo by Topical Press Agency/Getty Images)

La famiglia secondo me

Che cos'è oggi la famiglia? È davvero un cerchio così chiuso in cui alcuni possono stare ed altri no? La storia travagliata del mio concetto di famiglia.

Nella mia famiglia ci sono sempre state due famiglie: una era la famiglia famiglia, quella con mia madre, mio padre e poi me.

L’altra era la famiglia allargata, fatta dalle zie, dagli zii, dai cugini e dalle cugine, un coacervo confuso di figure chiassose che si riuniva tutti i Natali, ma anche ai compleanni, agli anniversari di matrimonio, e persino agli onomastici. Ogni occasione era buona per festeggiare.

Mia madre aveva preparato addirittura un foglio excel con le date di tutte le feste di famiglia, e questo foglio era richiestissimo da tutti, perché a nessuno capitasse di dimenticare un compleanno o una data importante. Se lo fotocopiavano e se lo passavano e, quando entrava nel nucleo qualche nuovo elemento, un fidanzato di una cugina, qualcuno che nasceva, lo aggiornavano a penna.

Per anni, il mio concetto di famiglia è stato quel foglio excel. E mi piaceva che cambiava, mutava, si allargava, la lista delle persone di cui ricordare i compleanni e gli onomastici diventava sempre più lunga. Più diventava lunga e più mi piaceva, anche se non capivo perché.

L’ho capito a Roma, non troppo tempo fa, in una chiacchierata con una psichiatra, che va spesso in Africa a fare volontariato.

Le ho chiesto se anche in Africa avessero gli stessi problemi di noi occidentali: depressione, ansia, attacchi di panico. Lei mi ha detto: «No, altri, legati alla sopravvivenza. E poi», ha aggiunto, «manca completamente un tema che è invece centrale nei disagi dell’Occidente, la solitudine. Nessuno lì è solo, i figli sono figli di tutti, anche quando si diventa grandi, e le famiglie non hanno confini, infatti è sempre complicato censirli per i vaccini perché non si sa mai chi siano i veri genitori».

Sin da bambino, per indole, ho avuto la propensione al dramma. Temevo di rimanere orfano o povero. O che i miei genitori venissero rapiti dagli alieni (non si sa perché solo loro e non io, era tutta colpa delle videocassette sugli ufo che compravo in edicola). Temi di solitudine, che per molto tempo mi hanno angosciato.

C’era però un solo pensiero capace di consolarmi. Ero sicuro, e ne sono ancora oggi, che ciascuno dei componenti della famiglia allargata si sarebbe speso per me, per tenermi in vita, tutelarmi, volermi bene, come avrebbero fatto i miei genitori, e i miei genitori con gli altri. Questo valeva, e vale, anche con e per gli elementi più periferici della famiglia, quelli che non erano nemmeno parenti di sangue, mogli e mariti di zie, zii, cugini e cugine. Qualunque cosa fosse accaduta, non sarei mai rimasto veramente solo.

Sempre a Roma, gli anni post-universitari. La ricerca fallimentare di un lavoro, di una collocazione identitaria nel mondo. La metropoli che separa, allontana. Una casa divisa a metà con una sconosciuta e la sua gatta, che poco a poco diventano familiari. Lì di nuovo ho provato quella sensazione – non essere mai davvero solo – e ho capito che non era un’esclusiva della famiglia allargata. Era una sensazione riproducibile e non aveva leggi, se non quelle più semplici della condivisione.  Chiunque, entrando dalla porta degli affetti, poteva allungare il foglio excel di mia madre.

Scarnificato dalle sue apparanze, il concetto di famiglia, in fondo, non è altro che questo: la sicurezza che a qualunque ora tornerai a casa, ti aspetteranno per cena. E questa sicurezza non ha legami di sangue, non ha genere.

Un gioco stupido, per alcuni forse blasfemo, ma all’epoca io e la mia coinquilina facevamo a Natale il presepe. Solo che, anziché farlo con i veri pupi del presepe, che non avevamo, lo facevamo con i pupazzetti trovati nei pacchi delle patatine. Nonostante le apparenze, noi trasferivamo a quei simboli, in una chiave forse più ironica, ma non meno autentica, la stessa funzione che avremmo trasferito a dei veri pupi del presepe, ovvero quella di vederci rappresentati come famiglia.

Sono tempi belli, pieni di opportunità, ma anche complessi, difficili, che ci rendono fragili, ci allontanano dagli affetti noti nella speranza di centrare obiettivi professionali. Quanto prima capiamo che dobbiamo rendere fluido, espandibile, il concetto di famiglia, tanto prima costruiremo un muro di relazioni che potrà essere l’unica difesa contro la bestia più feroce della contemporaneità, il mostro della solitudine, che, tra l’altro, ci rende deboli politicamente, sconnessi socialmente, emotivamente malati.

In un mondo così, chi ha il coraggio di non accettare la potenza di una verità così semplice, e cioè che tutti possono essere famiglia?

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