La maestra ribelle di Procida

La storia di Giovanna, nata nella piccola isola di Procida. Una giovinezza spesa a scappare dal destino già scritto per le donne del paese: moglie, madre, al massimo, insegnante. A raccontarla è la scrittrice Silvia Avallone 

Aspettavamo la telefonata di papà. Non lo sapevamo mai quando sarebbe arrivata, tiravamo a indovinare. L’unica certezza era che avrebbe chiamato, una volta al mese, quando la petroliera toccava terra. Ho trascorso l’infanzia così, a puntare un dito su un atlante, fantasticando su dove si trovasse papà. A Procida ogni famiglia ha un uomo che parte e passa la vita per mare. Ho osservato l’attesa di mia madre, di tutte le donne dell’isola a crescere i figli da sole. E l’ho sentito subito, che ero diversa.

Nata ribelle

Mi chiamo Giovanna Lauro, e sono nata alle 3 del mattino su una motovedetta. Né a Procida né a Napoli. Da allora ferma in un posto non ci so stare. Su un’isola a maggior ragione. Da ragazzina guardavo il mare circondarmi, mi sembrava un muro. Volevo andare, fare tardi, e l’ultima nave era alle 20. Ho cominciato subito a ribellarmi. Dopo le medie ho annunciato alla mia famiglia che non mi sarei iscritta alle magistrali. Tutte le donne hanno fatto le magistrali, a Procida. Un posto sicuro, che alla futura suocera piace perché poi a pranzo finisci e fai da mangiare ai bambini, a Natale sei a casa quando torna il marito. Ma non volevo essere io quella che resta, anche se sono una donna. Ho scelto lingue straniere. Eravamo 13 in classe. 11 sono sposate con figli. Solo in 2 abbiamo disubbidito. Oggi è diverso. Ma io sono nata nel 1980, prima del Postino, e funzionava che a diciott’anni ci si fidanzava con un ragazzo del nautico. Poi lui s’imbarcava, tu studiavi da maestra, e per il tuo matrimonio le sarte procidane ricamavano lenzuoli di lino che varranno che so, migliaia di euro, tanto sono preziosi. A casa dei miei genitori ne ho due cassapanche piene, che stanno là, come due bare.

Procida: per amarla dovevo starle lontana

La mia stanza di Procida era piena dei souvenir di papà. Non è stato facile accumularli, tenere tra le mani la sua assenza. Poi lui tornava ed era una grande festa. A noi figli veniva concesso di rientrare tardi, veniva regalata la Vespa. E quando ripartiva toccava a mia madre ristabilire gli orari, toglierci il motorino, ribadire a me che dovevo insegnare. Dopo il diploma le risposi di nuovo: «No. Vado a studiare a Milano». Ci rimase male, mi appoggiò comunque. Eravamo due mondi distanti, siamo madre e figlia. Passare da 4 chilometri quadri a una metropoli non fu una passeggiata. Capii cos’era Procida: l’unica certezza. Ma per amarla dovevo starle lontana.

Ritornavo solo per le vacanze, e mia madre puntualmente tirava fuori il corredo che a forza di stare al chiuso diventava giallo. Me lo trovavo lì, appeso sul filo del bucato, spiattellato davanti come un’ammonizione. Continuavo a non fidanzarmi, a viaggiare. In Galles, in Inghilterra. Solo in un’occasione l’isola mi fregò. M’innamorai, lasciai tutto e mi stabilii a Procida. Perché lui non era un marittimo e non lo dovevo aspettare. E perché potevo lavorare sulle barche a vela, per mare come mio padre. Durò 4 anni, poi si sa come vanno queste cose. Oggi nessuna ragazza si fidanza a diciott’anni, i ragazzi non s’imbarcano più sulle navi cargo ma su quelle da crociera. I turisti sono stranieri, l’estero è un malìa. Quando finì mi trovai un lavoro stagionale sull’isola, sgobbavo 6 mesi per poter trascorrere i rimanenti 6 dall’altra parte del mondo.

Mia madre rientrava e le stanze erano vuote. A ogni mio ritorno il corredo si faceva più giallo, lei più triste. Dev’essere difficile guardare tua figlia che non trova pace. Non mi diceva mai: Giovanna, basta. Ma io lo vedevo quanto soffriva. Una volta mi chiese di tornare, mentre sorseggiavo un mojito in una baia di pescatori in Brasile. Mi chiamò: «Ho speso un sacco di soldi per iscriverti al concorso per docenti». In realtà, aveva speso 15 euro per una marca da bollo, ma io non lo sapevo, mi sentii in colpa. Affrontai il concorso, lo passai, me ne dimenticai. E arrivò il giorno in cui decisi di vivere in Australia. Com’è che dice Arturo nel romanzo della Morante? «Quelli come te, che hanno due sangui diversi nelle vene, non trovano mai risposo né contentezza». Mia madre mi accompagnò in aeroporto. Per tutta la vita aveva pazientato e quella volta non si trattenne: «Se muoio, non riuscirai a venire neanche al mio funerale».

Vado a vivere in Australia

Stavo male, ma ero felice; libera di migrare di nuovo, nella terra in cui a Natale Santa Claus cavalcava le onde in costume da bagno, e dove l’anno prima ero andata in vacanza mantenendomi come lavapiatti in una caffetteria. Poi, insperatamente, i miei ex datori di lavoro mi avevano scritto: «Torna, ti faremo da sponsor con il governo australiano». Avevo un visto in tasca per il paradiso. A Sydney riabbracciai i coniugi calabresi che mi avevano dato tanta fiducia, i loro 3 figli nati là. Non ci avevo mai fatto caso che i primi 2 erano sposati con italiane, mentre il terzo, Carlo, si mangiava con gli occhi le bionde del posto.

Non a lavorare, mi lanciai in quella vita nuova di zecca, finché fu chiaro che mi avevano teso una trappola per fami sposare. mi chiesi il perché di quel visto caduto dal cielo. Cominciai Lo capì anche Carlo, che andò su tutte le furie. I suoi fratelli mi misero alla porta. Avevo eretto migliaia di chilometri tra me e quel corredo per poi ritrovarmelo steso davanti l’ennesima volta. Fu devastante tornare a Procida. Ma non era tutto. C’era ancora una tegola che doveva cadermi sulla testa. Trovai una mail nella posta. Del ministro dell’Istruzione. Mi comunicava la mia immissione di ruolo nella scuola pubblica italiana.

Fine della fuga (quasi)

Perché ho firmato? Per vigliaccheria forse. O perché non mi sono mai tirata indietro. Mia madre mi stava alle spalle con il Berlucchi, impaziente di stapparlo. Io, davanti al computer, piangevo. Tenevo la freccia del mouse puntata su “conferma” e non volevo cliccare, non volevo arrendermi al sogno di mia madre. Adesso insegno alla scuola primaria. A Napoli, che per me è sempre stata un buco nero in cui passare giusto il tempo per un treno o un aereo. Il giovedì arrivo e trovo le aule vuote perché i miei alunni sono a Poggioreale, a far visita ai genitori. Non lo avevo mai compreso, che Procida è l’unico paradiso, e quanto nascere di qua o di là da un lembo d’acqua possa cambiarti la vita.

C’è una parte di me che non ho dovuto tradire: l’inglese. L’altrove mi è rimasto incagliato nelle parole, ed è questo che insegno. Il corredo nessuno lo tira più fuori. I miei fidanzati sono i 187 bambini che incontro ogni mattina. E ogni mattina mi fermo allo stesso semaforo e guardo il cartello. Una freccia indica il rione, l’altra Capodichino. La sento forte, la tentazione. Poi il motorino sterza e mi riporta a scuola. Cosa puoi insegnare a un bambino di 8 anni che è più adulto di te? Gli chiedi: «Perché sei così assonnato?». E lui ti risponde: «Hanno arrestato mia mamma». Io gli faccio vedere l’Australia sul cellulare, Babbo Natale che fa windsurf. Mi piace stare con loro, raccontare i viaggi che ho fatto e vedere i loro occhi che si allargano di stupore. Ogni tanto viene un genitore a ricevimento, urla: «Maestra, che gli avete messo in testa a mio figlio? Vuole andare a Londra!». Allora lo ammetto: di assomigliare anche un po’ a mia madre, sono contenta.

Riproduzione riservata