Il giorno che lo zio Vincenzo sbarcò da una nave chiamata oblio

  • 24 07 2019

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Arrivò un sabato pomeriggio, con una benda in testa e i vestiti lisi. Aveva occhi grandi, un po’ annacquati, come se mettesse a fuoco solo le cose lontane, quelle di tempi e luoghi distanti. Era alto e magro come un’ombra e aveva un sorriso circospetto e incerto. Si presentò come lo zio Vincenzo. Ma zio di chi? Io non l’avevo mai sentito nominare. Il dubbio che avesse sbagliato porta fu però fugato presto: girava per casa con la sicurezza di chi in un posto ci è cresciuto, cercando nomi di famiglia.

La nostra casetta dipinta d’azzurro si affacciava su un piccolo piazzale squadrato

Di fronte, mio padre che faceva il pescatore teneva ormeggiata la sua barca. Io vivevo con mia madre e una zia rimasta zitella. Nessuno di loro aveva mai nominato Vincenzo, ma mi tornò in mente che una volta al mese mia madre andava a Napoli «per una visita» e tornava a casa con addosso un abito di malinconia. «Chi sta cercando?» gli domandai. «I miei genitori». E pronunciò il nome dei miei nonni, che erano mancati un paio d’anni fa, ma non ebbi il coraggio di dirglielo o forse ero solo troppo stranita per farlo. Si sedette in cucina, accettò l’acqua che gli offrii e disse che voleva solo aspettare. Dalla finestra guardava il mare, le mani intrecciate sul pantalone scolorito. Era un matto o era un fantasma? O magari era un po’ l’uno e un po’ l’altro? L’unica certezza che avevo era che lo zio, o chiunque egli fosse, emanava uno smisurato senso di solitudine. Lo faceva in maniera spontanea e insopprimibile: non gli si poteva sfuggire, come all’odore delle foglie peste e umide.

La mamma e la zia tornarono poco dopo

Non era semplice capire cosa prevalesse, se la sorpresa o l’agitazione. Forse la confusione. Anche se poi ripensarono che erano mesi che all’ospedale dicevano: «Preparatevi, qui chiuderanno, hanno fatto una legge nuova che loro chiusi non possono stare più, devono tornare a casa, lo Stato darà una pensione». Ma era più semplice non crederci, se ne dicono tante di cose, ne mettono in giro di voci, e poi non succede mai niente, non cambia mai niente. E invece eccolo qui Vincenzo, appena sbarcato senza bagagli, senza un posto dove andare che non fosse la casa in cui mancava da oltre vent’anni e che era l’unica che conoscesse, con- vinto di trovare tutto fermo lì dove l’aveva lasciato perché dopotutto era trascorso un tempo che a lui era parso breve, immobile e sempre uguale. E come era parso a lui, doveva essere parso anche agli altri.

Non nacquero mai perplessità sul tenere lo zio con noi

Era il fratello maggiore e le sue sorelle sapevano che era inoffensivo. La sua malattia era la stranezza, ma quando chiedevo: «In che senso, strano?», nessuno sapeva rispondermi. Dicevano che tutto era successo dopo che era stato imbarcato su una nave durante la guerra, però a me era sempre parsa una spiegazione errata, perché in realtà se lo zio ne vedeva una al largo del porto si entusiasmava. Non poteva essere stata quella stessa cosa che gli illuminava lo sguardo a spezzargli la vita. Il lento incedere dello scafo gli dava la gioia delle mille vite che avrebbe potuto vivere e gli regalava l’oblio dell’unica che aveva vissuto. Ma poi diventava un puntino bianco sempre più lontano fino a confondersi con la linea dell’orizzonte e si portava con sé la sua breve felicità. Lo zio un po’ matto e un po’ fantasma si innestò nella quotidianità della nostra famiglia. La domenica lo portavamo a messa con l’unico vestito buono che era appartenuto a mio padre quando era più giovane e più magro. Gli davamo il compito di versare l’offerta nel cestino prima della comunione: si sentiva gratificato. Parole ne aveva poche, se la cavava meglio con i gesti e con gli sguardi. Di tanto in tanto mi dava 100 lire con la valuta di vent’anni prima, convinto che potessi farmene qualcosa. Mi dispiaceva dirgli che il suo regalo era inutile e ricambiavo con la foto di una nave presa da cartoline o da riviste. Le metteva in una scatola di latta che è andata persa come tante altre cose che, sbagliando, si credono poco importanti.

«Ti ricordi quando sono arrivato, che non mi hai riconosciuto?»

Era un pomeriggio di giugno. Avevo già compiuto vent’anni e dopo tante giornate di pioggia era arrivato un sole timido e pallido. Stavo spolverando in cucina e dalla finestra lasciata aperta arrivava il pianto della neonata di due francesi che avevano affittato la casa vicino alla nostra. La bambina si chiamava Melissa. Che bel nome Melissa, pensavo, se avrò una figlia la chiamerò così anch’io. Risposi allo zio di sì, che me lo ricordavo, continuando distrattamente a spolverare immersa in un futuro ancora da costruire. Del fatto che avrei potuto dargli una maggiore reciprocità o meglio ancora, una sensazione di parità, l’ho capito soltanto in seguito, quando sono cresciuta e una Melissa l’ho avuta davvero, quando la morte si mette di mezzo con l’enorme lezione che a un certo punto le cose non le puoi cambiare più, perché che potevamo fare di meglio lo capiamo sempre dopo. «Io me n’ero scappato da là». Alzai lo sguardo con interesse verso una versione tutta nuova della storia. «Tanto lo dovevano chiudere, l’ospedale. Per questo non mi ci hanno riportato, non ne valeva la pena».

Forse nessuno si era impegnato fino in fondo a cercarlo o forse era stato bravo a far perdere le sue tracce

Si era lasciato l’ospedale alle spalle ed era andato fino al porto a cercare la sua nave. Ma non aveva i soldi per salire su nessuna; una nave grande con lo scafo color grigio ferro, non chiedeva tanto. «Non è la Ercole questa qui?» domandava alle facce tutte uguali, tutti lo prendevano per un barbone fino a quando un procidano lo riconobbe. Era il capitano di un traghetto, lo fece salire gratis e quando gli chiese: «Ti accompagno a casa?», lo zio rispose: «No, non ne ho bisogno, la strada di casa me la ricordo». «Il traghetto era quello lì» disse, indicandomelo con il dito ossuto. Misi da parte la pezza per la polvere, i miei piccoli sogni e seguii il suo sguardo verso il trapezio che infrangeva le onde luccicanti. Il suo nome, Oblio, mi strappò un sorriso amaro.

Alessia Gazzola, 37 anni, di Messina, esordisce nel 2011 con L’allieva (Longanesi). Protagonista è Alice Allevi, specializzanda in Medicina legale (come Alessia negli anni in cui scrive il romanzo). Il libro è un bestseller: seguono 7 volumi e una serie tv. Nel 2019 Gazzola ha pubblicato Lena e la tempesta, (Garzanti), che ha presentato a giugno al festival Procida racconta. E a un abitante dell’isola campana è ispirato il racconto che leggi qui. E il primo racconto della nostra serie, scritto da Donatella Di Pietrantonio, lo leggi a questo link.

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