Speaker uomo convegno

Che cos’è un “manel”

I manels sono quei convegni, festival, talk show in cui gli esperti e i relatori sono, per la stragrande maggioranza, uomini. E non perché manchino le donne qualificate. Semplicemente, non vengono invitate. Ecco le ragioni, numeri alla mano

In tendenza sui social network: “manels

Tra le parole di tendenza sui social nelle ultime settimane c’è manels. È un neologismo, entrato nell’edizione 2017 dell’Oxford Dictionary, che deriva dall’espressione inglese all-men panels: ovvero, convegni e manifestazioni dove vengono invitati a parlare solo uomini. Da diverso tempo, in realtà, in ambito universitario molte studiose sottolineano che, a parità di grado accademico, è prassi comune che ai congressi partecipino perlopiù relatori di sesso maschile. Ma la questione riguarda qualsiasi evento pubblico: basti pensare al recente Festival della Bellezza di Verona o agli Stati Generali dell’Economia dello scorso giugno, con una netta predominanza di giacche e cravatte.

Così come sono le firme maschili a spiccare sulle prime pagine dei quotidiani: aveva iniziato a denunciarlo nel 2018 Michela Murgia con l’hashtag #tuttimaschi, diventato oggi il più usato sui social in questo contesto. Un caso? No. Secondo una formula elaborata dal matematico Greg Martin, se organizzassimo panel da 20 esperti senza conoscere il genere degli invitati, la probabilità che questi siano composti da 19 uomini e una donna sarebbe molto più bassa di quella che invece verifichiamo nella realtà.

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Laureate e dottorate sono di più, ma non arrivano ai vertici della carriera

La risposta comune, quando si fa notare questo divario, è che è più difficile farsi venire in mente donne da chiamare. È vero. Secondo il Rapporto Rai 2019, le politiche invitate ai dibattiti tv nell’anno precedente sono state il 18,1% del totale, mentre le professioniste esperte nel proprio settore (ricercatrici, docenti universitarie, imprenditrici, giornaliste) sono state il 24,8%. Il punto è che le invitiamo di meno perché sono meno presenti in cima alle scale gerarchiche, i bacini nei quali si è soliti cercare i relatori. I manels sono la punta dell’iceberg. Le donne che, a parità di titolo, raggiungono i vertici della carriera sono meno degli uomini: all’università, nel giornalismo, nella politica.

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Non possiamo non iniziare a interrogarci seriamente sulle ragioni, dal momento che la risposta non è “gli uomini studiano più delle donne” né “gli uomini conseguono migliori risultati accademici”. Basta osservare i dati 2019 del consorzio universitario Almalaurea. Fra i laureati triennali, il 46,1% delle ragazze ha concluso il percorso prima dei 23 anni, contro il 38,9% dei ragazzi. Le studentesse si sono laureate con una media di 101,1 e i colleghi con 98,6. Non solo. Su 84 rettori italiani solo 7 sono donne. Nel 2018 la percentuale femminile si attesta al 50,1% tra i titolari di assegni di ricerca, al 46,8% tra i ricercatori universitari, al 38,4% tra i professori associati e al 23,7% tra gli ordinari. Lo dicono i dati del Miur pubblicati nel 2020. Eppure in Italia ci sono più donne con una laurea o un dottorato rispetto agli uomini. Nel 2018 le ragazze sono il 55,4% degli iscritti ai corsi di laurea; il 57,1% del totale dei laureati; il 49,4% degli iscritti ai corsi di dottorato; il 50,5% dei dottori di ricerca. La forbice che va allargandosi al crescere della posizione di potere può dunque avere solo una duplice spiegazione.

Le donne sono invitate meno perché meno presenti ai vertici delle scale gerarchiche, i bacini in cui si è soliti cercare i relatori

Resistono i pregiudizi di genere, più o meno inconsapevoli

La prima è la persistente presenza di stereotipi sulla conciliazione fra lavoro e famiglia. Secondo un sondaggio condotto dall’Agenzia Dire su “Donne e media” presentato a fine 2019, il 9% dei laureati ritiene che le donne dovrebbero stare a casa ad accudire i figli; in tutta la popolazione lo pensa un italiano su 5. Nel 2019 un’indagine Istat sugli stereotipi di genere evidenziava che per il 27% degli italiani dovrebbe essere l’uomo a occuparsi delle necessità economiche della famiglia, per il 34% (e per il 15,9% delle donne laureate) gli uomini sono meno adatti a gestire le faccende domestiche e per il 16% in condizioni di scarsità di occupazionale i datori di lavoro dovrebbero dare la precedenza agli uomini.

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La seconda spiegazione è il sessismo. A fine 2018 aveva fatto scalpore la denuncia, non isolata, del rettore della Scuola Normale Superiore di Pisa Vincenzo Barone, che aveva parlato apertamente di clima sessista nella sua università. In un altro contesto, una recente analisi della Federazione Nazionale Stampa Italiana riporta che l’85% delle giornaliste intervistate dichiara di aver subìto almeno una volta nella propria carriera una forma di molestia in ambito professionale. Il 42% ne è stata vittima nell’ultimo anno. E la molestia appare come un modo più o meno consapevole di rimettere una donna al proprio posto: non ha a che vedere con il sesso, ma con il potere. In Italia ci sono 14.816 giornaliste e 20.803 giornalisti iscritti all’ordine, ma solo un direttore su 4 è donna e il suo stipendio è più basso del 25% rispetto a quello di un uomo. Le parlamentari sono il 35% del totale e la carica di Presidente della Camera per esempio è stata ricoperta da una donna in 5 legislature su 18.

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Anche gli uomini iniziano a boicottare i manels

Resta da decidere se vogliamo considerare questo divario solo come sconveniente o come ingiusto. Occorre cominciare a cercare le donne da invitare agli eventi pubblici. Perché esistono, come dimostrano il lungo elenco delle Unstoppable Women di StartupItalia (startupitalia.eu) e la lista 100Esperte (100esperte.it) promossa dall’Osservatorio di Pavia e dall’associazione di giornaliste Gi.U.Li.A, con la Fondazione Bracco. Negli ultimi tempi sono nate diverse iniziative in tutto il mondo per raccogliere segnalazioni, da “Congrats, you have an all male panel!” ai vari canali social #ManelsWatch. In Italia è attivo il gruppo Facebook #BoycottManels, che chiede a chiunque venga invitato a eventi solo maschili di non parteciparvi in segno di protesta.

E c’è chi ha preso pubblicamente posizione. Lo hanno fatto, per esempio, il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano e lo scrittore Sandro Veronesi, che su Twitter ha dichiarato: «Ho deciso che, prima di accettare un invito a qualunque festival, mi sincererò che nel programma sia garantito un numero adeguato di donne». È il momento di cominciare a fare questa rivoluzione. Donne e uomini insieme.

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