Martina Rossi nel 2011 nella sua prima vacanza con le amiche, poco prima di morire cadendo dal balco
Martina Rossi nel 2011 nella sua prima vacanza con le amiche, poco prima di morire cadendo dal balcone di un hotel per sfuggire - secondo l'accusa - a una violenza sessuale
A 20 anni morì cadendo dal balcone di un hotel a Palma di Maiorca per sfuggire - secondo l'accusa - a una violenza sessuale. La sentenza della Cassazione che dovrebbe chiudere il processo ai due imputati, già condannati per tentata violenza di gruppo, è stata rinviata. Il rischio è che il reato cada in prescrizione

Possiamo immaginarci cosa voglia dire per un papà e una mamma a cui è morta una figlia di 20 anni, aspettare dieci anni per avere giustizia? Questo sta accadendo nella vicenda di Martina Rossi, la ragazza genovese morta nel 2011 dopo essere precipitata dal balcone della stanza 609 dell’albergo Santa Ana di Palma di Maiorca, dove era in vacanza con le amiche. Il 26 agosto era attesa la sentenza di ultimo grado, quella della Suprema Corte di Cassazione, che invece è stata rinviata al 7 ottobre. I due imputati hanno avanzato delle richieste sulla legittimità della Commissione, che quindi dovrà riunirsi di nuovo. Ma il rischio è che il reato venga prescritto definitivamente.

Il reato di violenza di gruppo

Martina – secondo l’accusa – stava tentando di sfuggire a una presunta violenza sessuale. In questi dieci anni Luca Vanneschi e Alessandro Albertoni, accusati della morte della giovane, sono stati condannati in appello-bis a 3 anni per tentata violenza di gruppo. Nel frattempo sono cadute le accuse per omesso soccorso e morte per conseguenza di un altro reato (cioè Martina è uscita sul balcone ma non sarebbe morta per questo motivo). È rimasta in piedi quella per tentata violenza di gruppo per cui i due sono stati già condannati, senza però scontare alcuna pena. Liberi, insomma.

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«Il processo non è una partita di calcio»

Il rinvio della sentenza rappresenta quindi l’ennesima beffa per chi aspetta giustizia da dieci anni, come ha detto a Repubblica il papà di Martina: «Tutta questa vicenda è stata tagliata sulla difficoltà e i tempi della giustizia italiana, che vengono allungati a dismisura da cavilli, eccezioni e rinvii. Ma il processo non è una partita di calcio, dove per prendere tempo butti il pallone in corner o dai un calcio nelle gambe all’avversario. Di fronte alla morte non ci deve essere prescrizione e devi pagare. Bisogna dire al papà e alla mamma di Martina perché Martina non c’è più». Stefano Savi, il legale della famiglia di Martina Rossi, parla di “tristezza e amarezza” dopo la decisione del rinvio da parte della Cassazione che ha accolto la richiesta avanzata dalle difese dei due imputati: «Questa di oggi, in realtà, è una mossa che gli serve poco – ha commentato il legale, raggiunto da Fanpage – perché si ritorna alla sezione di partenza e quindi, tutto sommato, non cambia un granché. È già stato stabilito che il relatore sarà lo stesso di oggi e quindi non vedo, bene o male, come questa mossa possa giovare». Una mossa legittima che però ha tutto il sapore dell’ennesimo tentativo di allungare i tempi di questo processo, fino ad arrivare alla prescrizione, che scade il 16 ottobre.

Inaccettabili dieci anni per un processo

Ma può la giustizia giocare così al limite con la vita delle persone? Lo chiediamo all’avvocata Maria Luisa Missiaggia, fondatrice dell’associazione Studiodonne onlus. «Dieci anni per tre gradi di giudizio sono inconcepibili, sia per la vittima sia per i presunti colpevoli. È molto rischioso arrivare a ridosso della terza prescrizione accogliendo una richiesta così. Si rischia che il 7 ottobre l’accusa si presenti con un’altra eccezione o ricorso, e che così anche l’ultimo reato che rimane in piedi finisca per essere bruciato. Se un rinvio era legittimo, sarebbe stato meglio non fissarlo così a ridosso della prescrizione». Nella riforma della giustizia che è stata approvata dalla Camera (deve passare ancora al Senato) si parla di improcedibilità oltre i tre anni. «Nella sostanza, però, le cose non cambiano. Cambia solo la parola. È sul lavoro dei giudici e dei tribunali che bisogna puntare, rinforzando il personale e mettendoci risorse. Spingiamo le donne a essere coraggiose e a denunciare ma poi con quali risorse sosteniamo il loro gesto, la loro vita?». Ciò a cui possono ambire ormai i genitori di Martina è la conferma della sentenza d’appello, cioè la condanna a tre anni per i due imputati. Ma, come ha detto il papà di Martina, «Credo che la loro colpa non sia quella e mi auspico che sentano al responsabilità di quello che hanno fatto. E se avranno dei figli, forse un giorno capiranno cosa vuol dire vivere dieci anni così».

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