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Il Reddito di libertà per le donne maltrattate

È una sorta di bonus appena varato dal Governo per aiutare le donne nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza. A chi è destinato, a quanto ammonta, come funziona

Il Reddito di Libertà per le donne vittime di violenza è diventato legge. Per molte donne che trovano il coraggio di denunciare maltrattamenti, significa poter contare su un contributo economico che le aiuti nel passaggio dalla convivenza con l’ex compagno o marito violento al raggiungimento di un’indipendenza economica. Si tratta di uno strumento molto atteso per le tante vittima di violenza, cresciute nel 2020 di quasi l’80% rispetto all’anno precedente, come confermano i dati Istat relativi alle richieste di aiuto giunte al numero 1522 anti-violenza. A pesare sono stati soprattutto i mesi di lockdown, con una crescita di chiamate del 176,9% ad aprile e del 182,2% a maggio, rispetto agli stessi mesi del 2019.

Cos’è il Reddito di Libertà

Con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale il 20 luglio, entra in vigore l’assegno a sostegno di chi ha subito maltrattamenti, ma trova il coraggio di denunciarli, pur senza contare su un’indipendenza economica. Si tratta di una misura prevista nel Dpcm del 17 dicembre 2020 e poi nel decreto Rilancio 34/2020, che adesso può contare su una copertura economica di 3 milioni di euro complessivi. «I centri antiviolenza chiedevano questa misura da tempo, almeno dalla nascita del movimento Non una di meno. È un provvedimento importante sia a livello simbolico, perché riconosce un diritto come quello alla libertà di cui si è state private a causa della violenza, sia a livello concreto. Seppure in modo limitato, aiuterà infatti molte donne a intraprendere un percorso di autonomia» commenta Raffaella Palladino, già presidente e nel direttivo di Di.RE, la rete antiviolenza nazionale e tuttora impegnata in Campania con la Cooperativa Eva, che gestisce 5 centri antiviolenza e 3 case rifugio, oltre a 2 laboratori per l’inserimento lavorativo delle donne in uscita da un’esperienza di violenza.

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A cosa serve il bonus

Serve a facilitare l’indipendenza di una donna che abbia subito violenza, in modo che possa sostenere una parte delle spese di affitto di un appartamento, frequentare un corso di formazione che la reintroduca nel mondo del lavoro o pagare le spese scolastiche degli eventuali figli che vivono con lei. Può essere cumulato con altre forme di sostegno economico come il Reddito di cittadinanza.

«Ben venga tutto ciò che aiuta a togliere da una situazione di dipendenza o persino povertà, ma attenzione: le donne non hanno bisogno di un sussidio, men che meno a lungo termine, ma di sostegno per tornare indipendenti. L’assegno dovrebbe essere inteso come una sorta di “borsa di studio” o lavoro, che dovrebbe aprire le strade all’occupazione, oltre a riconoscere un diritto, come quello all’autonomia economica, spesso calpestato dopo una violazione» commenta Palladino.

Concorda l’avvocata Claudia Rabellino Becce, che da tempo si occupa della problematica: «Anticamera della violenza fisica è spesso quella economica, cioè la completa sudditanza al partner nell’accesso e nella gestione dell’economia familiare. Dare alle donne in condizione di particolare fragilità la possibilità di emanciparsi economicamente significa sicuramente offrire loro uno strumento di libertà».

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A chi è destinato il contributo

L’assegno, erogato dallo Stato tramite Regioni e Province autonome, può essere integrato anche da ulteriori fondi degli Enti locali. Consiste in un bonus mensile fino a 400 euro, per un periodo massimo di un anno (12 mesi). Come chiarito dal Dpcm (art.3) è riservato alle donne vittime di violenza, con o senza figli minori, che siano state prese in carico dai centri anti-violenza regionali e dai servizi sociali. Donne, cioè, che abbiano accettato di seguire un percorso di fuoriuscita dalla violenza.

Come chiedere il bonus

Per poter usufruire della misura di sostegno occorre presentare una domanda all’Inps, corredata da autocertificazione e da una dichiarazione firmata dal rappresentante legale del Centro antiviolenza a cui la donna si è rivolta e del servizio sociale di riferimento. Spetta a questi ultimi, infatti, certificare le condizioni di bisogno in cui si trova la donna che chiede il Reddito di Libertà, che è inteso come misura straordinaria, urgente e limitata nel tempo. «Il Reddito di Libertà è anche un riconoscimento simbolico importante ai centri anti-violenza, che in questi anni hanno faticato e faticano a trovare fondi per aiutare le donne in difficoltà» spiega Palladino. I fondi nazionali previsti dalla legge 119 del 2013, infatti, sono su base regionale: attraverso il Dipartimento per le Pari Opportunità arrivano alle Regioni che possono decidere di destinare le somme direttamente ai centri antiviolenza (Cav) oppure di inviarle ai Comuni. In alcuni casi c’è anche una distribuzione mista.

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Ritardi e burocrazia non aiutano le donne

«Il problema è che ci sono realtà molto differenti a livello territoriale: ci sono Regioni virtuose, che riescono a far arrivare i fondi in modo più rapido ed efficiente, e altre che lo sono meno, dove i centri anti-violenza si sostentano grazie a raccolte e progetti che coinvolgono fondazioni private» spiega la responsabile della Cooperative Eva. La conferma arriva da un monitoraggio, condotto alcuni mesi fa da ActionAid, secondo cui la burocrazia spesso rallenta i tempi di distribuzione dei fondi pubblici, tanto che arrivano ai destinatari in media dopo un anno e mezzo rispetto allo stanziamento.

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Cosa serve ancora

«È un limite oggettivo – dice Palladino – ma il fatto che sia stato istituito un Reddito di Libertà rappresenta comunque un passo avanti e soprattutto un primo riconoscimento di una problematica che finora era rimasta in sordina». Pur essendo una misura positiva, Rabellino Becce osserva in conclusione: «È ovvio che il reddito di Libertà non può essere risolutivo da solo, se non è inserito in un contesto di misure il cui obiettivo sia consentire alle donne di raggiungere questa conquista di autonomia. Serve una politica del lavoro e del welfare, che permetta loro di scegliere liberamente il proprio futuro – prosegue l’esperta – Bisogna affermare la cultura della parità, a tutti i livelli. L’obiettivo deve essere un contesto sociale del quale il Reddito di Libertà diventi non più necessario».

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