Paola Barbato scrittrice
Paola Barbato
Milanese, 50 anni, è sposata con lo scrittore Matteo Bussola e ha 3 figlie: Virginia, Ginevra e Melania di 14, 10 e 8 anni. È tra gli sceneggiatori di Dylan Dog e autrice della trilogia Io so chi sei, Zoo, Vengo a prenderti (Piemme). Nel 2021 è uscito L’ultimo ospite, sempre Piemme.

Le guarderò e dirò: figlie mie, insegnatemi

Abbiamo chiesto a tre scrittrici di parlare di genitorialità a partire dalla loro vita vera. Ecco il racconto di Paola Barbato

Io non volevo avere figlie. Sono stata una bambina profondamente fragile, piena di paure e di complessi, e ho sempre pensato che quegli aspetti del mio carattere fossero innati e immutabili. Questo significava che avrei potuto trasmetterli, correndo il rischio che una mia eventuale bambina potesse essere come me. Quindi, quando sono rimasta incinta la prima volta, ho pregato a lungo che fosse un maschio, ma non sono stata accontentata. E siccome la vita si accanisce sempre, di figlie ne ho avute 3. A differenza di altri genitori che si trovano costretti a riorganizzarsi l’esistenza, lavorare come scrittrice ha facilitato enormemente le cose, perché il lavoro da casa può essere distribuito anche in orari scomodi e inusuali. Certo, ci sono state notti in cui non riuscivo a scrivere una parola e giornate trascorse a vegetare sul divano mentre le pargole mi usavano come trampolino, ma lo spazio e il tempo che loro hanno occupato erano spazi e tempi che reclamavano di essere riempiti.

A me la fase dell’accudimento, anche se stancante, è sempre piaciuta molto. Forse si tratterà di manie di controllo, ma sapere che il benessere delle mie figlie dipendeva da quello che facevo, quando lo facevo e soprattutto come lo facevo, per me era importante, mi faceva sentire utile. Come tutte le persone che hanno sofferto di disturbi depressivi, riconoscermi un ruolo ha risolto tanti dubbi e mi ha dato le basi per cementare un’autostima che era sempre stata claudicante. Così ci ho messo tutta la forza di volontà che avevo e ho portato avanti la mia triplice maternità, perché sono stata la stessa madre per tutte e tre eppure sono stata anche tre madri distinte.
Caratterialmente Virginia, Ginevra e Melania sono molto diverse e la prima, come karma vuole, mi assomiglia tantissimo. Ho iniziato a identificare le sue fragilità da subito, riconoscendole come quelle che avevano afflitto la mia infanzia, e mi sono ritrovata in una specie di visione in stile Cassandra, la storia si ripeteva senza che io apparentemente potessi farci nulla. Virginia aveva però dalla sua il vantaggio della mia esperienza, che mi ha consentito, se non di evitarle dispiaceri, di spiegarle come funzionavano certe cose e aiutarla ad accettarle. Rivedermi in lei è difficilissimo, perché tante sensibilità che le appartengono io le ho perse o me ne sono dovuta liberare per riuscire a costruirmi una corazza. Ma da fuori riconosco, ora, quanto siano belle.

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La seconda figlia, invece, è quanto di più lontano ci sia da me. È stata una sfida sin dai primi istanti, così imperativa, sicura, un concentrato di volontà un tantinello prepotente. Il suo carattere spesso mi ha tratta in inganno, perché quando incontri una bambina forte, in automatico pensi che non abbia bisogno di te, non così tanto come credevi, non per tutto. E questo è un errore. I bambini prendono ciò che serve loro in base a ciò che tu offri, e se la tua offerta è limitata prima o poi se ne accorgeranno. Sono corsa ai ripari quando mi sono resa conto che anche Ginevra aveva delle fragilità, nascoste dietro ai punti di forza, di cui non mi ero accorta. Questo mi ha messo in crisi, mi ha fatto dubitare di me, ci sono stati momenti in cui pensavo di non riuscire a trasmetterle amore semplicemente perché lei non me lo chiedeva. Poi ho capito che Ginevra è come i gatti: il loro modo di chiedere affetto è più sottile, te lo manifestano semplicemente sedendosi nella stessa stanza con te. Non aveva bisogno di proclami, non aveva bisogno di sbandierare o di avere straordinarie manifestazioni, le bastava pochissimo, ma quel pochissimo le era necessario. Insomma, le era sufficiente che sedessi nella stessa stanza dove si trovava lei e che lo facessi appositamente. E così è stato.

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Siccome mi ero fatta le ossa su due figlie, era ovvio che la terza dovesse giocare la propria partita su tutt’altro terreno, così da ribaltare di nuovo le carte in tavola. Melania, la terza, non chiede niente. Quello che vuole semplicemente se lo prende. Se ha bisogno di affetto ti si arrampica addosso, se ha bisogno di chiacchierare arriva e inizia parlare, se ha bisogno di attenzione fa tanto baccano che non è possibile occuparsi di altro. È quella più solida, più autonoma, più abile nel procacciarsi l’adorazione altrui. Tutti amano Melania e Melania ama tutti. Al di fuori della famiglia (dove gli scontri con le sorelle sono inevitabili, nonché sani) non ha mai vissuto un conflitto, davanti a lei si sono sempre stesi tappeti rossi da parte di maestre e compagni di scuola ma anche di bambini e bambine sconosciuti incontrati un pomeriggio al parco.


«Si tratterà di mania di controllo, ma la fase dell’accudimento, anche se stancante, mi è sempre piaciuta. Sapere che il benessere delle mie figlie dipendeva da quello che facevo e come lo facevo, per me era importante»


Con Melania mi sono sentita inutile. Non era necessario che le offrissi nulla, non era necessario alcuno sforzo, lei era autonoma, un ecosistema che si gestiva da solo e che ogni tanto si otteneva quel che gli serviva attraverso di me. È la cosa più bella del mondo, ma è anche la cosa più terrificante. Sono andata in ansia, in un affanno che mi stava facendo correre il rischio di annullarmi nell’amore per le mie figlie. Ma non volevo vivere in funzione loro, non volevo diventare la sede distaccata dei loro bisogni, mi era necessario mantenere consapevolezza di me e dedizione per me, me lo dovevo.

L’escamotage che ho usato per non farmi sopraffare è stato impormi di essere un modello di donna che si sa occupare di se stessa. Ho imparato dire di no ad alcune loro richieste, spiegando che avevo altro da fare, che ero stanca, che semplicemente non ne avevo voglia. Non era la regola, non era la risposta standard o la prima che mi veniva in mente, ma è stata una risposta a cui si sono dovute abituare. La mamma non è un erogatore di benzina da cui ti rifornisci a tuo piacimento ma è una persona che va trattata con rispetto, come tutte le altre persone. Se sarò riuscita a trasmettere loro il concetto che devono essere le prime ad amarsi, il mio ruolo sarà stato assolto. E allora potrò sedermi davanti a loro, guardarle e dire:
«Bambine, insegnatemi».

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