Perché bisogna ridurre l’uso della plastica

In Italia si protesta per i sacchetti biodegradabili ma l'inquinamento da plastica nel mare ha raggiunto livelli allarmanti anche da noi, al largo di Toscana e Corsica. E le microplastiche finiscono nei nostri piatti


Prima le proteste, poi l’ironia social contro la legge che ha imposto il pagamento dei sacchetti biodegradabili dell’ortofrutta, da 1 a 3 cent. Il caso, però, è servito per attirare l’attenzione su un problema enorme come quello dell’inquinamento da plastica: riguarda tutto il pianeta, compreso il Mar Mediterraneo e le coste di Toscana e Corsica, dove si è formata quella che gli esperti chiamano una “zuppa di microplastica”, con una concentrazione superiore persino alla famigerata “isola di plastica” dell’Oceano Pacifico del nord. Le microplastiche, inoltre, finiscono nel cibo che mangiamo tutti i giorni.

Il “caso” dei sacchetti per l’ortofrutta

La normativa che ha reso obbligatorio l’uso di sacchetti biodegradabili per frutta e verdura, con il loro pagamento da parte dei consumatori, ha tenuto banco per diversi giorni, nell’ultimo periodo, non senza generare confusione in molti consumatori. I dubbi spaziano dalla loro efficacia in termini di impatto ambientale a problema dell’igiene: a chi si chiedeva se fosse possibile portare buste da casa, infatti, è stato risposto in modo negativo, proprio per una questione igienica.  

Un primo effetto di questa confusione, però, è stato l’aumento del ricorso a prodotti già confezionati per non dover pagare l’extra. A confermarlo è un sondaggio, realizzato dal Monitor Ortofrutta di Agroter, che ha analizzato il comportamento dei consumatori italiani nei primi dieci giorni dell’anno: il 12% ha preferito comprare frutta e verdura già confezionati (con un effetto totalmente contrario alla logica sostenibile che invece guida l’introduzione dei nuovi sacchetti bio, a minore impatto ambientale); il 21% si è rivolto al fruttivendolo, che utilizza sacchetti di carta non a pagamento, mentre un 7% ha dichiarato di aver acquistato meno frutta e verdura.

Il piano anti-inquinamento europeo

La normativa introdotta a partire dal 1° gennaio 2018, invece, va invece inquadrata in un più ampio contesto europeo di lotta all’inquinamento. L’esecutivo comunitario, riunito a Strasburgo in occasione di una sessione plenaria del Parlamento europeo, ha presentato nuovi obiettivi anti-inquinamento. Si tratta della Public Waste strategy comunitaria voluta per “proteggere l’ambiente, favorire l’innovazione e creare posti di lavoro”: un piano che l’Europa adotta seguendo quanto già fatto da Gran Bretagna e Cina.

Gli obblighi per i produttori e gli Stati membri sono in via di definizione, ma contenuti e piani di massima sono già chiari: entro il 2030, ad esempio, tutti gli imballaggi di plastica dovranno utilizzare materiale riciclabile; il packaging sarà uniformato e diventerà più facilmente riutilizzabile, mentre le microplastiche (ove possibile) non potranno più essere usate.

L’obiettivo è risparmiare circa cento euro per ogni tonnellata raccolta e rendere molto più competitivo l’utilizzo del materiale di “seconda mano”, oggi spesso meno conveniente grazie ai prezzi bassi del petrolio.

Non solo i sacchetti bio

Leggi analoghe a quelle varate per i sacchetti per l’ortofrutta saranno introdotte anche per le reti da pesca e ad altri prodotti che usano la plastica. La Commissione intende imporre norme rigide sull’uso delle microplastiche, con l’obiettivo di avere etichette visibili e chiare che indichino la biodegradabilità di ogni prodotto. In arrivo anche regole severe e sanzioni per chi scarica rifiuti in mare dalle navi: tutta la spazzatura dovrà essere trasportata a terra, con agevolazioni alle autorità portuali per avviarne il riciclo. Via anche a nuovi investimenti (per ora 100 milioni di euro) per finanziare la ricerca sulle plastiche verdi, cioè biodegradabili perché realizzate con materie prime vegetali rinnovabili annualmente.

L’allarme europeo: quanta plastica si produce?

L’Europa produce oggi 25 milioni di tonnellate di plastica all’anno e solo il 30% (il 41% in Italia) viene riciclato. La parte restante rappresenta l’85% della spazzatura che finisce sulle spiagge.

«Ogni anno in media finiscono in mare 8 milioni di tonnellate di plastica: è come se, ogni minuto per 365 giorni, un camion della spazzatura riversasse tutto il suo contenuto in acqua. Secondo i risultati di una ricerca, presentata in occasione del World Economic Forum, proseguendo a questo ritmo entro il 2050 gli oceani potrebbero contenere più plastica che pesci in termini di peso» dice Mariasole Bianco*, Esperta di conservazione dell’ambiente marino, scienziata e divulgatrice ambientale.

I consumi, tra l’altro, non accennano a diminuire: negli ultimi 50 anni la produzione di plastica è cresciuta di 20 volte e, senza interventi tempestivi, nel 2036 le attuali 311 milioni di tonnellate arriveranno a 630 milioni.

Da qui l’allarme europeo: «Dobbiamo intervenire per creare un’economia per la plastica circolare ed evitare di mettere sul mercato prodotti che si confezionano in 5 secondi, si usano per 5 minuti e poi ci mettono 500 anni per smaltirsi nell’ambiente» ha dichiarato il Vicepresidente della Ue, Frans Timmerman.

Dalle “isole di plastica” alle “zuppe”

La plastica, un materiale che è nato accompagnato da grandi speranze per la sua leggerezza, resistenza e basso costo di produzione, si è col tempo trasformata in una delle più grandi minacce per la salute del nostro pianeta e di tutti i suoi abitanti proprio a causa dell’uso inconsalevole che ne facciamo. Non è di per sé biodegradabile, dunque non si decompone. Una volta che finisce negli oceani, attraverso i fiumi o trasportata dal vento, prende il largo spinta dalle correnti, andando a formare quelle che vengono definite le “isole di plastica”: ce ne sono 5 e si stima che nel solo Oceano Pacifico ci siano 150 milioni di tonnellate di materie plastiche.

«In realtà dovrebbero essere chiamate “zuppe” perché la plastica, sotto l’azione del sole e del moto ondoso del mare, si disgrega in fibre, palline o in frammenti alcuni di dimesioni molto piccolo che prendono il nome di microplastiche (grandezza inferiore a 5 mm), che hanno finito con l’invadere ogni metro quadrato di mare, colonizzando anche le parti più remote del pianeta» spiega l’esperta.

La plastica anche nel Mar Mediterraneo: zona rossa tra Toscana e Corsica

«Uno studio del CNR ha individuato una grande “zuppa di plastica” anche nel Mar Mediterraneo, la cui massima concentrazione si trova tra Toscana e Corsica» spiega Mariasole Bianco, che prosegue: «In quest’area di mare un chilometro quadro ne contiene in media 10 chili di plastica: si tratta di valori superiori perfino alla famigerata “isola di plastica” localizzata nel vortice dell’Oceano Pacifico del nord».

Questo provoca dei danni enormi ai pesci, agli abitanti degli oceani e a quasi tutte le forma di vita animale, compreso l’uomo.

Dai mari alla tavola: perché la plastica è pericolosa

La plastica rappresenta un pericolo per varie ragioni:

1 – Gli animali posso rimanerci impigliati come nel caso di questa foca (vedi il video).
2 – Spesso gli animali la scambiano per cibo, ingerendola e rimanendo soffocati. Recentemente è stato trovato uno zifio spiaggiato in Norvegia, morto di stenti perchè l’unica cosa che aveva all’interno del su0 stomaco erano 30 sacchetti di plastica. Ma sono centinaia di  migliaia i mammiferi marini che ogni anno muoiono per lo stesso motivo.
3 – I mammiferi non sono i soli ad ingerirla: proprio i pezzettini più piccoli vengono scambiati spessissimo dai pesci (sardine, tonni, ecc.) per cibo e così entrano nella catena alimentare marina, arrivando anche alle nostre tavole. Mentre i pezzi di plastica rimangono nello stomaco dei pesci, le sostanze chimiche utilizzate per la sua fabbricazione vengono immagazzinate nei tessuti dell’animale e quindi anche nel cibo che noi mangiamo. Nel caso dei molluschi, come le ostriche, l’uomo finisce con l’assimilare proprio anche la plastica: alcuni studi mostrano che mangiando 6 ostriche ingeriamo in media anche 50 pezzi di microplastica. Ma da dove arrivano le microplastiche?

Dai mari alle tavole: il pericolo delle microplastiche

Le microplastiche arrivano in mare dagli oggetti della vita quotidiana, comprese minuscole parti e fibre di capi di abbigliamento sintetico, tramite l’acqua di scarico dopo i lavaggi in lavatrice. «Quando arrivano negli oceani entrano in contatto con altre sostanze chimiche tossiche rilasciate dall’uomo nell’ambiente, come ad esempio i pesticidi, e li attaccano alla loro superficie – spiega la scienziata – Quando la microplastica viene assimilata da un organismo vivente, ad esempio i pesci, inizia ad accumularsi al suo interno insieme alle sostanze tossiche, entrando a far parte della catena alimentare. Non solo, dunque, rappresentano un grande problema in termini di inquinamento dei mari, ma influiscono anche sulla salute degli organismi viventi e su quella dell’uomo, oltre che avere conseguenze sull’economia dei paesi costieri».

*Chi è Mariasole Bianco

Esperta di conservazione dell’ambiente marino, scienziata e divulgatrice ambientale. Punto di riferimento nazionale ed internazionale per le politiche legate alla tutela  dell’ambiente marino e lo sviluppo sostenibile. Recentemente è stata riconosciuta dal mensile  americano Origin tra i 100 “ OCEAN HEROES” per il grande lavoro svolto nonostante la  giovane età. Coinvolta nell’organizzazione delle maggiori conferenze relative alla  conservazione dell’ambiente a livello mondiale dove è diventata anche un punto di  riferimento per il coinvolgimento e il potenziamento professionale dei giovani.  Dal 2015 segue come esperta la rubrica sulla conservazione degli oceani per la trasmissione  Kilimangiaro-Rai3.

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