In difesa della scuola

  • 04 06 2020
Finisce la scuola e ci chiediamo: potevamo chiedere di più? No, perché la differenza la fa sempre l'insegnante. E un sistema che, pur con tanti problemi, si è trovato a gestire la didattica a distanza come unica soluzione

E siamo all’ultimo giorno di scuola. Mettendo a posto le fotografie degli anni passati (una delle mie attività preferite della quarantena), ho provato nostalgia preventiva per il vuoto di ricordi che avrebbe lasciato questo 2020. Mi sbagliavo. Gli ultimi 3 mesi, di cui le testimonianze audiovisive non mancano, saranno tra i ricordi più emozionanti della vita scolastica delle mie figlie. Le chiacchierate intime con la prof, finita la lezione. La voce della maestra registrata mentre legge le favole della buonanotte. Le facce dei compagni che raccontano i loro incubi notturni o inventano storie che hanno per protagonisti i loro amici.

L’esperienza che ciascun alunno ha avuto è dipesa totalmente dal maestro che gli è capitato in sorte. Non poteva essere altrimenti. Ma, come ha scritto Alberto Asor Rosa, «centinaia di migliaia d’insegnanti hanno affrontato con dedizione straordinaria e competenze fuori del comune» questa situazione. E io non penso che l’esperienza delle mie figlie sia stata un’eccezione. Potevamo aspettarci qualcosa di più dal sistema scuola? Temo di no. E non lo dico per rassegnazione. Anche le aziende più evolute hanno, sì, smaterializzato gran parte del loro lavoro. Ma ciò non significa che abbiano fatto uno smart working di vera qualità. E questo nonostante tale modalità sia un loro obiettivo da anni. Aspettarsi che la scuola facesse di meglio è veramente troppo. Soprattutto perché nessuno ha mai pensato, anche nell’istituto più digitalizzato del mondo, che si potesse prescindere dalle lezioni in presenza. Cito ancora Asor Rosa: «La “comunità fisica” è un coefficiente indispensabile di una “comunità intellettuale” funzionante». La didattica a distanza è stata una soluzione di emergenza e sempre lo sarà.

C’è poi il tema riapertura. In tanti si chiedono perché i bar e i parrucchieri sì, mentre la scuola no. Non riesco a unirmi a questo coro. Se c’è una cosa che abbiamo capito del virus, è che i bambini sono un veicolo di contagio particolarmente pericoloso, poiché più facilmente asintomatici. Per di più faticano a tenere le distanze, anche se sono pieni di paura. E la paura accumulata in questi mesi di lockdown si è sciolta al primo sole che li ha baciati nel parchetto sotto casa. Io i bar e i parrucchieri ho iniziato a frequentarli. Distanze, mascherine, visiere, gel per le mani prima e dopo. Vi assicuro che nessun bambino riuscirebbe a rispettare autonomamente il complesso rituale che ci impone la nuova socialità. E nessun insegnante potrebbe prendersi la responsabilità che 20 bambini lo rispettino tutti assieme. Io non permetterò alle mie figlie di riabbracciare i nonni se non prima di avere un esito negativo al test sierologico. Perché dovrei metterle nelle condizioni di rappresentare un pericolo per insegnanti, bidelli, istruttori? Ciò non toglie che la politica continui a perdere tempo prezioso. Ben più urgente di un nuovo concorso, come ha spiegato Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, sarebbe stato necessario stabilire le regole con cui ciascun dirigente scolastico dovrà organizzare il proprio istituto a settembre, e anche le sue responsabilità penali e civili: «Altrimenti il rischio è che gli attori della scuola decidano di non decidere, rendendo la riapertura un’impresa titanica». Esattamente ciò che sta succedendo adesso.

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