Separati in casa: e se fosse meglio del divorzio?

Finito l’amore meglio perdersi di vista. Lo pensiamo più o meno tutti. Ma ora L’Amour flou, il film che è anche la storia vera dei protagonisti, lancia la sfida: cerchiamo un nuovo modo di essere famiglia anche dopo. Possibile?

L’amore è una cosa, il matrimonio è un’altra. Avrebbero dovuto insegnarlo a scuola come educazione civica familiare, e invece ci hanno abbandonati al “tutti vissero felici e contenti”. E dopo? Nessuno vuole spiegarci cosa succede alle coppie dieci anni dopo? Com’è che prosegue la storia? Cosa succede all’amore quando diventa famiglia? Cosa succede a due persone che stanno sullo stesso divano tutte le sere e tutte le sante mattine si vedono appena svegli? Cosa succede quando i difetti dell’altro non li troviamo più simpatici come all’inizio, anzi non li perdoniamo più?

Cosa succede se il vecchio cane che detesti e a cui tuo marito è affezionatissimo ti vomita negli stivali di Isabel Marant e un amico dei tuoi figli entrando in casa esclama: «Wow, questa casa puzza come la stanza di mio nonno»? Il “dopo”, ovvero il matrimonio, ce lo racconta L’amour Flou, il più aggraziato e divertente (e francese) film del prossimo autunno. Finalmente è tornata la commedia romantica o, meglio, semiromantica: prendi due adulti sposati che non si sopportano, riusciranno a lasciarsi di buon accordo? Oppure no, perché se si fosse davvero di buon accordo, non ci si lascerebbe?

La storia: tra Romane e Philippe non funziona più, anzi si odiano e certi giorni poco cordialmente.

Philippe racconta alla sua psicologa nella prima scena del film: «La quotidianità ci sta uccidendo. C’è una lastra di ghiaccio tra noi due e i nostri figli sono in piedi su quel ghiaccio a tenersi in equilibrio come pinguini». Separazione, non ci sono altre possibilità. O forse sì. E se invece ci fosse un’alternativa, almeno per non far soffrire troppo i figli? La sceneggiatura è firmata dagli attori francesi Romane Bohringer e Philippe Rebbot. Sono loro a scrivere e a recitare. «Anche se fosse andata male sarebbe diventato un dvd per i ragazzi» raccontano.

Non c’è stato bisogno inventare troppo: è la loro famiglia. È esattamente quello che è capitato. Erano due persone che si stavano separando come mille altre, ma al posto di due affitti, decidono per una soluzione meno traumatica (forse): costruire un appartamento con due ingressi, due cucine, due bagni, due camere da letto e un’unica stanza, per i figli, che fa da ponte. Tra le case e le vite. «La nostra coppia è esplosa, ma la nostra famiglia no. Ed è anche quello che vuole mostrare il film. Non ti amo più come moglie, ma ti amo come madre e amo la tua personalità. Il fatto di non riuscire più a vivere insieme è un conto, ma tengo tanto a tutto il resto» dice Philippe.

Ma il film non è solo una storia di (dis)amore

In un passaggio Philippe incontra la giornalista e politica Clementine Autain. Si parla dei numeri vertiginosi dei divorzi e della questione (senza soluzione) della casa. La casa è la protagonista quasi principale di ogni separazione. La casa cambia il destino delle persone. Pensate agli ex mariti che devono tornare a vivere dai genitori, a quelli che non ce la fanno a pagare mutuo, affitto e mantenimento, a chi non riesce a trovare una nuova relazione perché portare a cena una ragazza due volte a settimana costa e non è compatibile con un mantenimento da pagare. E poi dove la fai salire, la nuova ragazza, a casa dei tuoi? In un monolocale di trentacinque metri quadrati? A quarant’anni?

Divorziare è niente, è rifarsi una vita a queste condizioni, l’impresa. La legge è implacabile: la casa non si discute, nella vecchia casa staranno la madre e bambini. Anche perché toccherà principalmente alla madre il compito di fare il doppio genitore (certo, a parte le visite settimanali). Dove andrà a stare e come farà a mantenersi un ex marito è un argomento che non interessa ai giudici. Per questo è uno sport consigliabile solo sopra un certo reddito, lasciarsi: perché poi alla stessa famiglia servirà un terzo stipendio, e chissà se basta.

L’Amour flou. L’Amore Evanescente. L’Amore Confuso

Non ci siamo mai lasciati così tanto. Colpa nostra o degli ideali romantici? Di certo è stato il lavaggio di cervello più potente della Storia: se siamo diventate delle romantiche non più operabili è perché l’ha voluto l’industria culturale negli anni ’80 e ’90. Sì, saranno stati pure film e serie tv e cartoni animati, ma intanto il lieto fine è diventato marchio registrato. Non si sa neanche cos’è, ma lo vogliono tutti. Siamo cresciute a colpi di fiabe bellissime e ci ritroviamo in mezzo alle macerie di un divorzio senza sapere come muoverci. Ma dov’è scritto, si chiedono Romane e Philippe, che una separazione non possa essere diversa?

È scritto più o meno dappertutto, verrebbe da rispondergli. Finito l’amore, meglio perdersi di vista. Con un’eccezione ovvia, perché c’è una parola che cambia tutta la scena. E quella parola è: figli. L’amour flou racconta una storia semiseria, tragica, paradossale, verissima e comica del modo che hanno trovato due persone di disinnescare una separazione. Perché alla fine sono i figli, il vero patto. Il lieto fine non capita, se non lo fai capitare, e pure “lieto” è diventato un concetto con molte variazioni di tono. Ed è vero che l’abitudine uccide l’amore, ma è anche l’unico modo che ha l’amore di sopravvivere (lo capiranno nell’ultima scena, Romane e Philippe, appena in tempo).

Un film diverso dagli altri

«Non volevamo fare un documentario. Volevamo raccontare una storia. Era un modo per sdrammatizzare la nostra separazione e per rendere tutto meno brutale» spiega Romane Bohringer, autrice insieme a Philippe Rebbot (nella foto a sinistra) di L’amour flou – Come separarsi e restare amici, da pochi giorni nelle sale. In scena hanno portato tutti: i loro veri figli, le loro vere famiglie, i loro veri vicini di casa. E il risultato è una commedia ironica, emozionante e intelligente in bilico tra la fiction e la vita reale.

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