Si sta facendo qualcosa per prevenire le catastrofi naturali?

Sì, ma non basta. In dieci anni le vittime di terremoti, siccità, alluvioni
sono raddoppiate: oltre 600.000. Senza contare i morti dello tsunami. Serve una strategia globale. L'Onu ne discute in questi giorni in Giappone. Noi facciamo il punto sulle misure già prese. E da prendere

Il bilancio provvisorio dello tsunami che il 26 dicembre scorso ha seminato il terrore nel Sud Est asiatico parla di oltre 160.000 morti. Un numero agghiacciante, che aumenta le preoccupazioni degli oltre 2.000 ricercatori, esperti di protezione civile e cooperazione internazionale che sino al 22 gennaio, per iniziativa dell’Onu, sono riuniti a Kobe, in Giappone, per la seconda World Conference on Disaster Reduction, con l’intento di mettere a punto una strategia globale per ridurre i danni delle catastrofi naturali.

«Solo dal 1994 al 2003 a causa di terremoti, uragani, alluvioni e altre calamità sono morte 609.638 persone.

Mentre il numero degli esseri umani colpiti arriva a 2 miliardi e 700 milioni» dice Bernardo De Bernardinis, responsabile dell’ufficio Pianificazione, valutazione e prevenzione rischi del dipartimento della Protezione Civile e membro della delegazione italiana alla conferenza. Sono cifre raddoppiate rispetto al recente passato. «La nostra speranza è che a Kobe si arrivi al varo di un protocollo sulla sicurezza globale, che al primo punto metta la previsione e la sorveglianza». Anche se la tecnologia ci permette di prevedere molti eventi in anticipo, il clima sempre più instabile e la crescita della popolazione rendono impossibile metterci interamente al riparo dalle catastrofi. Ma l’uomo ha molte responsabilità. « In troppi Paesi non esiste un sistema di protezione civile capace di evacuare in tempo la popolazione.

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E manca una cultura della prevenzione che guidi lo sviluppo delle città e delle campagne tenendo conto delle mappe di rischio sismico, idrogeologico e meteorologico». Ma cosa possiamo fare per prevenire i disastri naturali? E perché, anche quando la tecnologia ce lo consente, non riusciamo a evitare la catastrofe? Ce lo spiegano gli esperti.

>>Più boe sentinella per avvistare i maremoti

“Se vedi un maremoto è già troppo tardi per salvarti”, dice un proverbio haitiano. Al contrario dei terremoti, però, anche le più imponenti onde anomale un margine di reazione lo lasciano. Ma tanto minore, purtroppo, quanto più l’onda è imponente. «Gli eventi che scatenano i maremoti, come i terremoti o le eruzioni sottomarine, non sono prevedibili. Grandezza, velocità e direzione dell’onda, però, possono essere previste in tempo per evacuare le coste. A patto che ci si trovi a una distanza sufficiente dall’origine del moto ondoso» spiega Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. «Un maremoto è un’onda lunga anche centinaia di chilometri, ma in mare aperto raramente raggiunge altezze elevate, e quindi è quasi inavvertibile. E quando dalla riva si scorge il mare ritirarsi e l’onda alzarsi, il tempo per evacuare le persone può non essere sufficiente».

Cosa si fa

Il più importante centro di prevenzione è lo Tsunami Warning Center, alle Hawaii, che raccoglie ed elabora le informazioni trasmesse via satellite dalla più grande rete di sensori galleggianti del mondo, “boe sentinella” che registrano il moto ondoso. Ma non è bastato a limitare i danni dello tsunami del 26 dicembre scorso. Secondo Boschi: «Il sistema ha sottostimato l’intensità dell’evento e il suo raggio di propagazione. Ma anche se non avesse commesso errori, non avrebbe saputo chi avvertire, visto che nessuno dei Paesi colpiti ha un sistema di protezione civile».

Cosa si può fare in più

Secondo Mario Tozzi, geologo e conduttore di Gaia, su Rai 3: «contro gli tsunami servono accordi transnazionali che permettano di distribuire le “boe sentinella” nelle acque dei Paesi a rischio. E bisognerebbe seguire l’esempio hawaiano: nessuna costruzione a meno di 15 metri dal livello del mare, se non palafitte».

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>>Servono case antisismiche

«I terremoti non uccidono, le case invece sì» ha detto Charles Richter, inventore del famoso sistema di misura sismico. Dal 1994 al 2003 i morti sono stati 180.000.

Cosa si fa

«Nonostante il Pianeta sia avvolto da una rete di rilevazione sismica che registra i più importanti movimenti della superficie terrestre, un terremoto non può essere previsto con certezza neppure in California, Giappone o Italia, che hanno i sistemi più sofisticati» dice Enzo Boschi, presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. «Si può solo stabilire il grado di probabilità con cui un sisma può avvenire in una certa

zona. Ma nell’arco di tempo di qualche decennio».

Cosa si può fare in più
Per limitare i danni, allora, non resta che costruire le città con criteri antisismici. Un terremoto della stessa intensità di quello che il 28 dicembre 2003 ha annientato 26.000 persone a Bam, in Iran, tre settimane dopo nell’antisismica California ne ha uccise solo due. «Le case vanno costruite con materiali leggeri e flessibili, con muri, tetto e pavimento collegati con snodi speciali, in modo che in caso di scossa si muovano nella stessa direzione», spiega Boschi. I costi di queste tecniche, però, sono elevati. E non mettono al riparo da qualunque evento tellurico. A Kobe, in Giappone, un terremoto dieci anni fa ha fatto oltre 6.000 vittime. Un soccorso efficace, quindi, è spesso l’unica carta da giocare. «Ma servono aggiornate mappe di rischio sismico e un buon sistema di protezione civile. Una combinazione che si trova in ben pochi Paesi».

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>>I Paesi ricchi sprecano troppa acqua

La carenza d’acqua negli ultimi dieci anni ha ucciso più di 108.000 persone in tutto il mondo. Ma dal 1994 a oggi la piaga della siccità ne ha investite molte di più: 770 milioni, 339 soltanto nel torrido 2002. «Il deserto avanza in un terzo delle terre emerse, a causa della diminuzione delle piogge e dello spreco di risorse idriche da parte dell’uomo» spiega Riccardo Valentini, docente di ecologia forestale all’Università di Viterbo. Un abitante di un Paese industrializzato utilizza in media 400 litri di acqua al giorno. Oltre un miliardo di persone, invece, non trova 20 litri d’acqua potabile nel raggio di un chilometro.

Cosa si fa

Dato che il 70 per cento dell’acqua serve all’agricoltura, molti Paesi stanno cercando di ridurre gli sprechi, che arrivano anche al 75 per cento. Alcune nazioni, come la Giordania, hanno adottato sistemi di irrigazione a goccia, che rilasciano sul terreno piccole quantità d’acqua prevenendone l’evaporazione. In India e in Africa, invece, si stanno riscoprendo tecniche di coltivazione antiche, economiche e di facile impiego. Dice Valentini: «Nel Rajasthan, in India, la costruzione di cisterne sotterranee, che durante la stagione delle piogge raccolgono acqua piovana, ha rigenerato falde acquifere una volta prosciugate. Mentre nel Sahara, la raccolta con teli di plastica dell’aria condensata dalle fredde notti desertiche ha permesso di costruire piccoli bacini dove far germogliare i semi delle piante anche nelle stagioni più aride».

Cosa si può fare in più
Per risolvere il problema della siccità, però, servono soldi. Molti di più di quelli a disposizione. «Nel 2000 l’Onu si è proposta di dimezzare entro il 2015 il numero di persone senza acqua potabile» spiega Mario Triulzi, docente di Economia Politica all’Università La Sapienza di Roma. «Per la Banca Mondiale, però, la comunità internazionale dovrebbe spendere 180 miliardi di dollari l’anno. Oggi ne spendiamo la metà: bastano appena a compensare gli effetti della crescita demografica, mantenendo le cose come stanno».

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>>I corsi antiuragano riducono le vittime

Un ciclone può essere devastante. Ma non colpisce mai di sorpresa. Quando, lo scorso settembre, l’uragano Jeanne si è abbattuto sulle coste caraibiche, ha fatto nella sola Haiti 1.213 vittime. Anche se da giorni la sua traiettoria era nota ai centri di meteorologia. «I cicloni, detti anche tifoni o uragani, assomigliano alle nostre trombe d’aria» spiega Antonio Navarra, climatologo dell’Istituto nazionale di fisica e vulcanologia. «Il loro raggio d’azione, però, anziché di decine di metri è di centinaia di chilometri, e quando investono le coste possono sommergere uomini e case come un maremoto». Oggi, però, sappiamo dove un ciclone può colpire e con quale violenza.

Cosa si fa

«Non appena viene avvistato, l’Organizzazione Mondiale per la Meteorologia ne valuta l’intensità analizzando le sue foto satellitari. Mentre i centri di ricerca americani e giapponesi dell’Atlantico e del Pacifico pubblicano su Internet posizione e traiettoria».

Cosa si può fare in più

Solo i Paesi più organizzati, però, riescono a evacuare le persone abbastanza in fretta. Così, nonostante gli uragani catastrofici si contino ogni anno sulle dita di una mano, dal 1994 al 2003 le vittime di cicloni nel mondo sono state 114.000. La ragione è la scarsa informazione e l’impreparazione della popolazione. Lo ha dimostrato Cuba durante l’ondata di uragani che ha colpito i Caraibi nel 2004: solo quattro vittime, contro le 3.000 delle isole vicine. Il suo segreto? Un buon istituto di metereologia e una “patente” salvavita rilasciata dalle scuole. Accanto allo spagnolo e alla matematica, gli studenti cubani per essere promossi devono conoscere il piano di evacuazione della loro città, prova pratica inclusa. Un’idea poco costosa, che in tre ore ha permesso di mettere in salvo 100.000 persone. Alla conferenza di Kobe sarà proposta ad altri Paesi in via di sviluppo.

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