Sofia Righetti, l’attivista per le donne con disabilità

Abbiamo incontrato Sofia Righetti, attivista per i diritti delle donne con disabilità, degli animali e per la comunità lgbtq (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer). «Ogni corpo è valido» ci dice. La sua battaglia è che la società sia finalmente accessibile a tutt* (il termine più inclusivo possibile). Se non lo è, è la società stessa a essere svantaggiata

Come la vestiremo? Come faremo a fotografarla se è sempre seduta? E la carrozzina, la scattiamo o no? Tante domande nel decidere e preparare questo incontro sul nostro set con Sofia Righetti, che abbiamo conosciuta attraverso ciò che dice di sé su Instagram. E ci ha colpito perché è una donna, bella, vitale, in cui in tante potremmo riconoscerci, e perché ha una storia da raccontare. Che non è quella che forse ci aspettiamo, dipinta di pietismo, rabbia o eroismo. Siamo noi a raccontarle sempre così, le persone con disabilità. E lo facciamo senza rendercene conto, per sentirci diversi, abituati come siamo a classificarci in categorie di adeguati e non adeguati, disabili e non disabili, magri o grassi.

Le donne con disabilità devono essere rappresentate

Invece lei, con i suoi occhi taglienti e glaciali e gli zigomi alla Eva Herzigova, è qui per ribaltare tutti i nostri schemi. «Non mi fai male» dice a Paolo, il nostro fashion director, preoccupato di avere davanti una bambola di porcellana. «Questo è il mio corpo e ne vado orgogliosa». Sul set allora alziamo la musica ed è la sua, l’abbiamo scelta apposta. E così un’équipe di dieci persone comincia a parlare di metal, di concerti, di quant’era bello quando ci si poteva andare. Sofia Righetti ha una sua band di soli uomini, lei suona la chitarra elettrica, ma oggi è qui anche per far sentire la sua voce. È un’attivista per i diritti delle donne con disabilità e si batte perché la disabilità non sia nascosta: «Le donne con disabilità esistono e devono essere rappresentate. I corpi disabili sono attraenti e meritano di essere valorizzati sui mass media, in televisione, nella moda, sempre». Ha già posato per qualche servizio, è disinvolta davanti all’obiettivo e ha quell’atteggiamento cameratesco e complice tipico dell’ambiente sportivo e che le viene dallo sci: è stata infatti campionessa di sci alpino tra il 2012 e il 2014. Per il resto, una vita strapiena dove tra passioni, studi, letture, esperienze la carrozzina sparisce: «Per me è solo uno strumento di libertà» ci dice. «Sono andata via da Verona a 19 anni per vivere da sola a Bologna, città aperta, accogliente, fuori dagli schemi. Gli anni dell’università fuori sede sono stati liberi e pieni di tutto quello che una ragazza di quella età potrebbe desiderare. Locali, viaggi, concerti, sport. Ho suonato in varie band punk e metal e viaggiato da sola in tantissimi paesi, anche in Australia. E oggi sono io a spingere le mie amiche a farlo». Non è da tutti, pensiamo: «Certo ho anch’io dei privilegi, la mia famiglia mi ha aiutato tantissimo e sempre sostenuto economicamente». Mentre ci racconta che è tornata a vivere vicino a Verona, scopre le braccia piene di muscoli e tatuaggi sensuali. «Rose, dee e sirene per celebrare la mia potenza, per farla emergere e raccontarla, sempre».

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E così, tra uno scatto e l’altro del nostro set un po’ metal e un po’ rock, dove spuntano catene e collari che restituiscono lo spirito trasgressivo di una donna diventata femminista e vegana a 14 anni, Sofia racconta di sé. Ma non c’è spazio per i dettagli che ci aspetteremmo: perché è sulla sedia a ruote, perché una certa cicatrice, perché perché… «Non importa parlare di me. Non ha senso sapere se sono così dalla nascita o per un incidente, non aggiunge e non toglie nulla alla mia vita che è un dato di fatto. Preferisco parlare di discriminazioni che il sistema attua tutti i giorni da sempre. Raccontare solo della mia esperienza sarebbe limitante e non inclusivo per le altre persone». Ha senso invece valorizzare tutto ciò che è oggi: un’attivista per i diritti delle donne con disabilità, degli animali e per la comunità lgbtq (lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer), che insieme alle persone disabili sfidano i pregiudizi tutti i giorni. Persone con diritti non ancora riconosciuti, a cui nei suoi post su Instagram da migliaia di like si rivolge non come “tutte” o “tutti”, ma tutt*: il termine più inclusivo possibile, senza etichette, come il mondo che dobbiamo costruire e che rivela tutta la sua inadeguatezza. «La disabilità non è una condizione personale, ma emerge quando le caratteriste psicofisiche delle persone si scontrano con una società non progettata per includerle. Io sono fiera di essere disabile e urlo il mio orgoglio quando per decenni la società ha provato a nasconderci e a normalizzarci, esattamente come è successo per le persone lgbtq, trans, grasse, nere. Dobbiamo lottare per rivendicare il nostro orgoglio di essere disabili ed esigere una rappresentazione corretta, senza pietismi».

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A essere svantaggiata è la società quando non è inclusiva

Sofia è stata tra i primissimi a introdurre in Italia il termine abilismo, ossia il sistema di potere che discrimina le persone disabili cercando di farle adeguare al concetto di “abilità”, e grazie a lei l’enciclopedia Treccani l’ha inserito ufficialmente come neologismo. Ed è grazie anche a tutti gli attivisti per i diritti delle persone con disabilità, che dagli anni Sessanta rivendicano il proprio peso nella società, che l’ottica con cui fotografare la realtà si sta allargando. E così si è passati da un approccio assistenzialista per cui la persona è svantaggiata (con “handicap” appunto, che vuol dire svantaggio) a una concezione abilista, per cui è la società che non vuole avere gli strumenti per includere le persone disabili. E per questo è responsabile di tale esclusione. «Oggi abbiamo fatto un ulteriore scatto in avanti e pensiamo che sia la società a essere svantaggiata proprio perché non inclusiva per tutti. In questo senso, l’abbattimento delle barriere architettoniche e sensoriali diventa una lotta per la giustizia sociale, non una questione di sensibilità».

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Alla società fa comodo considerare le donne con disabilità eterne bambine

Si è laureata con il massimo dei voti in Filosofia della medicina e Filosofia del diritto all’Università di Bologna, dove si è specializzata nei Feminist disability studies, la nuova frontiera della lotta per i diritti civili e del femminismo intersezionale. Oggi è relatrice e fa formazione in scuole, università e aziende, che stanno scoprendo il valore sociale ed economico dell’inclusione. A lei, la responsabilità di farsi portavoce dei diritti delle donne con disabilità, finora inascoltati anche dal femminismo. «Mentre le femministe non disabili lottano contro l’ipersessualizzazione del corpo, orientato al piacere maschile, le donne con disabilità vogliono al contrario far emergere il proprio corpo, affermarne la bellezza e la sensualità e soprattutto la validità. Ancora oggi infatti le donne disabili sono “desessualizzate”: e questa è una discriminazione violenta, che ha conseguenze terribili. Alla medicina, alla famiglia, alla società fa comodo vedere le donne disabili come eterne bambine perché privarle della validità sessuale vuol dire negare loro l’essere adulte, quindi la capacità di autodeterminazione, di decisione, di essere autonome. Non venire considerate adulte vuol dire anche non poter fare le madri: se per la società le donne disabili non sono in grado di badare a se stesse, come possono crescere un figlio? In questo modo ci viene negata la capacità di avere una sessualità come gli altri, accedere alle informazioni sul piacere sessuale e perfino agli studi ginecologici».

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La sessualità di chi ha una disabilità è ancora un tabu

Culturalmente oggi la sessualità di chi ha una disabilità è ancora un tabu. «Una mia compagna alle medie mi disse che un possibile ragazzo si sarebbe dovuto innamorare del mio carattere, e non del mio aspetto fisico. E io rido pensando che è sempre successo esattamente il contrario. In tutte le storie che ho avuto, prima c’è stata una forte attrazione fisica da entrambe le parti e poi, se duravano, è arrivato il resto».

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Ed ecco che, tra un cambio d’abito e l’altro, il filo del discorso porta dove non vorresti, in quel luogo che appartiene a tante donne. Anche a quelle con disabilità: «L’80 per cento ha subito molestie, abusi o stupri, non solo per la maggiore difficoltà a difendersi ma anche perché spesso pensare che nessuno ci desideri ci fa sentire grate se qualcuno ci rivolge attenzioni». Conseguenze estreme ma non troppo, in fondo, visti i dati. D’altra parte, affonda in questa stessa cultura il pensiero per cui le donne con disabilità non siano partner valide: «Pensare che siamo un peso o una responsabilità da portare, oltre a essere falso e offendere noi, è denigrante anche per i partner, che vedono svalutata la persona che amano e desiderano». Invece i partner ci sono, eccome. Ma questa è ancora un’altra storia.

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