Test sierologici: cosa succede se si è positivi

È partita l'indagine statistica nazionale con i test sierologici, ma attenzione: cosa succede se si risulta positivi? Il tampone non è automatico e non si va in isolamento, dicono i medici

È iniziata l’indagine epidemiologica con test sierologici su 150mila cittadini volontari per capire la diffusione del coronavirus sul territorio italiano, per conto di Istat. Ma ci sono anche molti che si erano prenotati per i test, convinti che potessero permettere il rientro al lavoro in sicurezza. Non è così: «Fare i test sierologici per scoprire se si è entrati in contatto con il virus o per togliersi la semplice curiosità di aver avuto la malattia in modo asintomatico non ha senso. Un altro errore è pensare che, in caso di positività, si debba necessariamento ricorrere al tampone e poi alla quarantena. Non c’è alcun automatismo tra test positivi e tampone: sarà comunque e sempre il medico a indicare la strada più opportuna, che potrebbe anche essere qualche accertamento diagnostico differente, per capire se c’è stata o c’è una forma di polmonite» chiarisce Claudio Cricelli, presidente della Società Italiana di Medicina Generale (SIMG).

Il caos dei test: utili o no?

Cosa accade, dunque, se si risulta positivi ai test sierologici? «Non c’è alcuna prassi predefinita. Intanto va chiarito che ha senso sottoporsi ai test sierologici solo se si sta male o si sono avuti contatti con persone contagiate. Ma in ogni caso ci si deve rivolgere al proprio medico che indicherà che tipo di analisi fare, presumibilmente il tampone, ma non è detto. Dipende dal quadro clinico che si presenta: non ha senso fare autonomamente e a pagamento questi test sierologici, anche perché ne esistono una trentina e nessuno ha finora ottenuto una certificazione sul grado di affidabilità» spiega Cricelli.

Cosa succede se si è positivi

«Anche supponendo di aver voluto fare il test di propria iniziativa presso laboratori privati (dunque a prescindere dall’indagine che sta conducendo l’Istat a scopo statistico ed epidemiologico), se si risulta positivi non è detto che si debba fare il tampone. Piuttosto, ci si rivolge al medico di famiglia e lui farà una diagnosi considerando una serie di elementi: ad esempio, se si presentano sintomi compatibili con il contagio, anche se lievi, oppure se ci sono stati contatti con persone infette (familiari, conoscenti o colleghi) o se ci sia il rischio di contagiare altre persone. Solo in quest’ultimo caso potrebbe scattare la quarantena. Il tampone, che aggrava il carico del Sistema Sanitario Nazionale, non è l’unica strada: il medico potrebbe anche prescrivere altre analisi e accertamenti come lastre per confermare o escludere di essere in presenza di una polmonite» dice l’esperto.

Quando si fa il tampone

«Il tampone viene somministrato, quindi, solo se c’è un quadro clinico preciso, che non può essere generalizzato, ma va valutato caso per caso». In alcune regioni come la Lombardia, i medici di base possono prescrivere i tamponi ai propri assistiti, ma non è detto che si possano effettuare subito perché spesso mancano i reagenti chimici per effettuarli, dunque viene data priorità ai casi urgenti e necessari come quelli di pazienti che arrivino in ospedale in condizioni più gravi. Se non si può fare subito il tampone, quindi, cosa accade? «Se il quadro clinico ne indica la necessità, sarà il medico a indirizzare in ospedale altrimenti potrebbe scattare l’isolamento domiciliare, ma solo se ci fosse il rischio di contagio per altre persone» spiega Cricelli.

Cosa ci dice il test e che affidabilità ha

«Il test non è un esame richiesto dai medici a scopo diagnostico. Il fatto che sia partita una campagna per 150mila cittadini volontari è legato all’utilità di capire la diffusione della malattia sul territorio italiano, andando a individuare soggetti che eventualmente si sono ammalati in maniera asintomatica. Ma anche in caso di positività occorre ricordare che non c’è alcuna garanzia sull’immunizzazione di lungo periodo» spiega Claudio Cricelli.

Perché le aziende li propongono

«Non c’è alcun protocollo che prevede la somministrazione di test sierologici ai lavoratori prima del rientro in servizio» chiarisce il presidente della SIMG. Il fatto che alcune imprese offrano queste analisi rientra in una forma di autotutela e precauzione, legata a protocollo di sicurezza messi a punto dalle singole aziende. Sono sempre su base volontaria, quindi implicano un consenso da parte del dipendente, ma non è prevista la quarantena automatica in caso di positività. Nella maggior parte dei casi si procede invece con un tampone «che ad oggi è l’unico strumento di diagnosi per accertare se si è in presenza di un soggetto sano o ammalato» conclude Cricelli.

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