Dopo una iniziale corsa ai testi sierologici offerti su base volontaria dalle aziende ai propri dipendenti, convinti che potessero rappresentare una sorta di “patente di immunità”, ora c’è un generale dietrofront: in molti hanno cancellato le prenotazioni. Accade soprattutto in alcune zone ad alto contagio come la Lombardia: qui la voglia (e spesso l’esigenza economica) di rientrare al lavoro si scontra sia con il timore di essere contagiati, sia con la paura di dover tornare in isolamento fiduciario. Una delibera dell’Assessore alla Salute, Gallera, prevede infatti che chi risulta positivo ai test deve sottoporsi al tampone. Ma la possibilità di effettuare proprio i tamponi è limitata alle urgenze ospedaliere (per la mancanza di reagenti chimici) e per liste d’attesa lunghe anche nei laboratori e nelle strutture private dove si effettuano a pagamento. In attesa di poter effettuare il tampone, dunque, si è costretti a rimanere in isolamento fiduciario a casa.

La conseguenza è un cortocircuito: in molti preferiscono non tornare in ufficio al lavoro e prolungare forme di smart working o ricorrere al congedo parentale, sia per non correre il rischio di ammalarsi (con un numero di contagi ancora molto elevato) sia per non doversi sottoporre nuovamente a quarantena. 

Diverso, invece, il caso dei test che sono stati avviati su 150mila cittadini volontari in altre zone d’Italia, a scopo statistico. 

Il caos test tra indagine epidemiologica e iniziative private

In Toscana ed Emilia Romagna il medico di famiglia può prescrivere i test sierologici (o anticorpali) in modo che i cittadini possano effettuarli presso laboratori autorizzati, gratis. In Emilia, però, anche chi non rientrasse tra le categorie di coloro per i quali le analisi siano ritenute necessarie, può rivolgersi a pagamento (25 euro) alle strutture riconosciute. In Veneto privatamente costano circa 40 euro, in Lombardia il medico di famiglia può invece prescrivere il tampone, a cui comunque devono sottoporsi tutti coloro che risultino positivi al test degli anticorpi.

Insomma, le differenze regionali restano anche nella fase 2, quella in cui alcuni datori di lavoro potrebbero chiedere i test ai propri dipendenti nel momento del ritorno in sede, come è stato fatto anche da alcune aziende (Pirelli, Prada, Brembo e Ferrari). Oppure qualche Paese straniero, in vista della riapertura dei confini, potrebbe prevedere l’ingresso solo a chi avesse la “patente di immunità”.

La “patente di immunità” oggi non esiste

La “patente” o “passaporto” di immunità dovrebbe dare il riconoscimento del fatto che, dopo essersi ammalati di COVID-19, si siano sviluppati gli anticorpi e dunque non si dovrebbe essere a rischio di contrarre la malattia. Ma il condizionale è d’obbligo. «Non ha senso parlare di passaporto sanitario. Da parte dell’Istituto Superiore di Sanità non c’è alcuna indicazione in tal senso e manca ancora un test standard. Al momento ci sono tipi diversi di test, ma nessuno è così affidabile da sostituire il tampone a scopo diagnostico, cioè per capire se un soggetto sia ammalato e contagioso. Ogni Regione sta seguendo proprie strategie: alcune li prescrivono per gli operatori sanitari, altre per servizi essenziali come quelli svolti dalle forze dell’ordine, ma l’interpretazione dei risultati è molto complicata tanto da richiedere, in caso di positività, il tampone» spiega Paolo D’Ancona, epidemiologo e ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità.

Per capire se sei ammalato serve il tampone

«Chi si rivolge privatamente ai laboratori, lo fa per avere un’informazione che non ha alcun valore di certezza» spiega D’Ancona. Potrebbe servire per capire se si è asintomatici? «Anche in presenza di un test validato ufficialmente, avrebbe solo valore orientativo: se positivo in un soggetto che ha sintomatologia compatibile con il COVID-19 è sicuramente più attendibile rispetto a quello su una persona asintomatica, ma è comunque necessario un tampone per sapere se la persona è ammalata» dice l’epidemiologo.

Il test ha un valore statistico

«Il test si basa sulla produzione di anticorpi, che però si formano dopo 3/5 giorni dall’inizio della malattia. Le analisi di questo tipo non aiutano quindi a stabilire se un soggetto sia contagiato, soprattutto se eseguito nei primi giorni della malattia, quando potrebbero non esserci ancora anticorpi. Se invece i test sono eseguiti dopo la scomparsa dei sintomi di COVID-19, non si ha comunque la garanzia della guarigione, perché si potrebbe essere ancora contagiosi Inoltre, anche se è più facile fare un prelievo di sangue o l’analisi di una goccia rispetto a un tampone, che richiede tempi e apparecchiature tali per cui non se ne può fare un numero infinito, i test sierologici presentano ancora problematiche relative a sensibilità e specificità: possono dare falsi negativi e falsi positivi» aggiunge l’esperto. Per questo alcune regioni, come la Lombardia, hanno previsto la possibilità che i medici di base prescrivano i tamponi, ma non i test che invece sono in corso in regioni come la Toscana (ma a scopo statistico).

Il test non serve per tornare al lavoro

«In questo momento in Toscana è partita una rilevazione statistico-epidemiologica per conto dell’Istat: sarà su base nazionale e coinvolge la popolazione che ha avuto contatti con il virus. Serve per capire che diffusione ha avuto la malattia. Qualunque altro scopo al momento non ha valore indicativo. Sottoporre i lavoratori alle analisi, ammesso che sia possibile, non serve: se il risultato è negativo significa che non si sono avuti contatti con persone contagiose fino a quel momento, ma potrebbe accadere nelle ore o nei giorni successivi. Potrebbe anche capitare che, pur essendosi ammalati, non si siano sviluppati gli anticorpi o che ciò non sia ancora accaduto» spiega Claudio Cricelli, presidente della SIMG che rappresenta i medici di base. Non a caso tra le aziende che hanno attivato test sierologici sui dipendenti, come la Brembo in provincia di Bergamo che è focolaio di contagio, è stato offerto gratuitamente anche il tampone e su base volontaria.

I due tipi di test

«Al momento ne esistono molti, si dividono sostanzialmente in due tipi a seconda del funzionamento (con prelievo del sangue vero e proprio o tramite un bastoncino come quello per i test di gravidanza), ma non c’è una validazione standard» spiega il virologo Fabrizio Pregliasco. Il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli, ha annunciato di volerne individuarne uno ritenuto migliore per sensibilità, senza correre il rischio – come accade oggi – di possibili falsi positivi. «C’è anche un problema legato non solo alla quantità, ma alla qualità degli anticorpi e, in prospettiva, alla durata dell’immunità» aggiunge Pregliasco.

Il test va abbinato al tampone

Il test fotografa la situazione al momento in cui lo si effettua, ma non esclude che una persona possa sviluppare anticorpi anche nei giorni seguenti all’analisi. Inoltre, non si sa per quanto a lungo si possa essere immunizzati. Non è un caso che un colosso come Prada, che ha riavviato l’attività seguendo un protocollo sanitario che prevede anche altre misure anti-contagio, ha annunciato di voler estendere gli screening sierologici nelle proprie sedi su base mensile. In caso di positività il test viene accompagnato da tampone anche per i familiari dei dipendenti. Stessa linea anche per FCA, Ferrari e altri gruppi come Tim.