"Thérèse Dreaming", Balthus, The Metropolitan Museum of Art, New York (1938)

"Thérèse Dreaming", Balthus, The Metropolitan Museum of Art, New York (1938)

Lasciamo che Thérèse sogni quello che le pare

Un dipinto di Balthus, accusato di istigare alla pedofilia, ha scatenato la polemica, con tanto di petizione per rimuoverlo dalle sale del Met di New York. Ma la censura può avere una forza educativa?

Un dipinto “controverso”

Lei è una scrittrice importante, ha amato il mio libro, dice, e il suo parere, che mi inorgoglisce, sarà sulla fascetta che accompagnerà il mio romanzo nelle librerie. Quasi non ci credo, già immagino la calca di gente che vorrà acquistare La figlia femmina, «se lo ha detto lei che è bello lo compro subito» penseranno, ogni cosa è perfetta, manca solo la copertina. Poi, arriva Balthus e, come al solito, rovina tutto. «Con quell’opera in copertina io proprio non voglio averci a che fare» mi dice la Scrittrice. Non puoi lasciarmi ora – penso – il libro lo amavi (lo ami ancora?), e con la calca di gente come la mettiamo? Mi spiega che non cambierà idea, «quel quadro vuole ammiccare ai pedofili».  Non è la sola a essere disturbata da Thérèse Dreaming (letteralmente “Thérèse che sogna”) è già successo in passato e in questi giorni a New York si mobilitano migliaia di indignati perché sia rimossa la tela di Balthus dal museo Metropolitan. «Un quadro perverso, che istiga alla pedofilia», è l’accusa dei 9000 firmatari che ne pretendono la censura.  Ripenso, con simpatia, alla statua del “cavallo ferito”, nella mia Catania, e a quando un benpensante lo costrinse a indossare un grosso paio di mutande, in modo che la processione della Madonna del Carmelo potesse transitare in pace, senza imbattersi nello stallone con gli zoccoli in aria e le vergogne al vento. Questo, come altri casi, sono le perle di una cultura che si evolve, hanno la bellezza tipica della malinconia, fanno sorridere e non allarmano.

"Thérèse Dreaming", Balthus, The Metropolitan Museum of Art, New York (1938)

“Thérèse Dreaming”, Balthus, The Metropolitan Museum of Art, New York (1938)

La censura può essere educativa?

Preoccupa, invece, il caso Balthus, che si inserisce in un fenomeno assai più grande. Le denunce degli ultimi mesi, connotate dall’hashtag #MeToo, hanno rappresentato un’azione coraggiosa e doverosa da parte delle donne, per smascherare un profondo tratto culturale della nostra società. Il fenomeno, però, sembra ora travolto da un moralismo ingenuo, che ha perso i suoi connotati razionali ed è arrivato a conseguenze paradossali, fino a lambire l’arte. La gente si indigna, chi da un lato chi dall’altro: deve l’arte essere utile, portatrice di valori morali, o non ha nulla a che vedere con la funzione educativa che alcuni (non solo a New York) sembrerebbero pretendere? Quel che mi chiedo io è quale forza educativa possa mai avere la censura. Thérèse se ne sta seduta sulla sua sedia, al Met, con le gambe spalancate. Avrà dodici anni, forse meno, il pittore la osserva e la ritrae, il visitatore del museo si sofferma di fronte alla sua tela e pensa che Thérèse sia un poco sconcia, che i suoi genitori dovrebbero dirle qualcosa (ma ce li ha i genitori, Thérèse?), o che, invece, quella bimba è solo la proiezione di un grande pittore che non per questo è necessariamente un grande uomo. Qualcuno la troverà attraente Thérèse, qualcun altro se ne sentirà respinto, altri ancora, si spera, proveranno tenerezza. Quel che importa – quel che l’arte chiede ai suoi amatori – è che la gente pensi. Come può confondersi la morale con l’arte, se questa è l’espressione di aspetti profondi, strumento per esternare le angosce, l’inconscio, l’insoluto, il dramma e le contorsioni dell’umanità? Dalla pittura al cinema, dalla letteratura al mito: se ogni epoca storica dovesse distruggere le opere d’arte che ritiene incarnino aspetti deplorevoli – la follia, le guerre, la sessualità – non resterebbe traccia di nessuna produzione artistica.

Un artista deve farci pensare, e discutere

L’arte non è mai pericolosa, ma lo è un regime che voglia assoggettare alla legge un’attività artistica: ce lo siamo già scordati? Ho scelto di mettere Thérèse in copertina a denunciare il più grave tra i crimini, la pedofilia. Non c’è ammiccamento, non c’è istigazione, ma solo rappresentazione. Le piccole vittime, spesso inconsapevoli della gravità di quanto accade, hanno un grande nemico: il tabù. Bruciare le tele equivale a cucire le loro bocche e privare la società di un mezzo di conoscenza, diffusione e comprensione fondamentale, quale è ogni forma d’arte. Il resto – la prevenzione e la repressione – non attiene alla responsabilità dell’artista, che ha, semmai, l’aspirazione di creare disordine e accendere il dibattito culturale. Sarebbe più utile che tutti gli indignati cercassero la violenza a casa propria e non nei musei, lasciando che Thérèse, intanto, sogni quello che le pare, come fa dal 1938.

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