Mamma bambina mascherina

Una piccola storia da raccontare

  • 03 09 2020

Il 14 settembre, i figli della mia amica torneranno in azienda, lei no. Ogni mattina dovrà accompagnarli al nido aziendale, ogni pomeriggio andarli a prendere. Nel mezzo, lavorerà in smart working da casa, perché non è tra il 40% dei dipendenti scelti per il rientro. Quando ha fatto presente l’assurdità di quella circostanza e le 4 ore quotidiane che spenderà per quell’irragionevole pendolarismo, nonché la sua ferma volontà di tornare a lavorare in sede, si è sentita rispondere che, se non le sta bene, può sempre usufruire della maternità facoltativa, ovvero di quell’astensione volontaria dal lavoro che ti porta a percepire solo il 30% del tuo stipendio, richiudendoti in casa a occuparti dei figli.

La mia amica non è tra le 37.000 donne che l’anno scorso hanno dovuto lasciare il lavoro dopo aver partorito. Non è tra i 598.000 (soprattutto donne) che hanno perso l’impiego dall’inizio del lockdown a oggi. Non è tra le migliaia di italiani messi in cassa integrazione: la sua azienda non è stata toccata dalla crisi e il suo lavoro si può fare da casa. Non è neppure tra le tante mamme che rischiano di licenziarsi se le scuole dovessero chiudere nuovamente: il suo nido aziendale riaprirà, questo è certo. E siccome non rientra in nessuna di queste categorie, in tanti le consigliano di ringraziare di avercelo il lavoro e pure il nido, e di smetterla di lamentarsi.

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Io penso l’esatto opposto. Questa storia va raccontata proprio perché sarebbe facile darle un lieto fine, e invece una grande e prestigiosa azienda italiana decide per il finale iniquo. Questa storia va raccontata perché, dopo 6 mesi di smart working in casa con 2 bimbi piccoli (l’esperienza più a rischio esaurimento nervoso che io riesca a immaginare), una donna si sente consigliare di restare a casa con i 2 figli e senza il lavoro, piuttosto che rientrare al lavoro e con i figli al nido. Questa storia va raccontata perché mostra il subdolo nemico di chi di noi ambisce a realizzarsi fuori dalle mura domestiche. Ossia la tacita idea che il lavoro, per le donne, sia un optional, un hobby. “Avete scelto voi di farlo, nessuno ve l’ha chiesto. Volete togliervi lo sfizio di lavorare? Allora accettate ogni forma di scomodità”.

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Sarebbe stato tutto più facile se fossimo rimaste una risorsa al servizio del maschio, ovvero coloro che gestendo casa e figli permettono all’uomo di concentrarsi e produrre. Ma l’economia e la demografia raccontano un’altra storia. Delle donne ha bisogno il mercato, perché se noi tutte lavorassimo il Pil mondiale potrebbe crescere fino al 35% entro il 2025. E dei figli che generiamo hanno bisogno le nazioni, se non vogliono ritrovarsi invecchiate, impoverite e senza alcuna rilevanza internazionale. Il lavoro femminile, e il fatto che esso non confligga con il ruolo di genitore, non è un benefit ma una necessità. Mettiamocelo in testa.

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