Vaccini: cosa succede a ritardare la seconda dose?

Per Pfizer e Moderna si passa da 21 giorni fino a 35/42, mentre per AstraZeneca si va da 4 a 12 settimane. Lo scopo è vaccinare più persone possibile. Ma cosa cambia in termini di efficacia?

Quanto si è protetti dopo la prima dose di vaccino e quanto dura l’immunità dopo aver completato il ciclo? Sono domande che sorgono in un momento in cui si tende ad allungare l’intervallo tra la somministrazione della prima dose e la seconda. Per Pfizer e Moderna, infatti, si passa da 21 giorni fino a 35/42, mentre per AstraZeneca si va da 4 a 12 settimane. A orientare la scelta è soprattutto la volontà di vaccinare più persone possibili almeno con una dose, sia per offrire una prima immunizzazione, sia per non far venir meno le scorte di siero. Ma cosa cambia in termini di efficacia?

Quanto a lungo si rimane protetti dopo la malattia

Gli anticorpi contro il Covid rimangono anche dopo 8 mesi, almeno in caso di infezione. A indicarlo sono i risultati di uno studio, condotto dall’ospedale San Raffaele di Milano insieme all’Istituto Superiore di sanità, su pazienti risultati positivi al virus Sars-CoV-2 durante la prima ondata della pandemia. La ricerca ha mostrato come la presenza degli anticorpi neutralizzanti, pur riducendosi nel tempo, è risultata molto persistente, indipendentemente dall’età o dalla presenza di altre patologie. Nel 79% dei casi, inoltre, gli anticorpi sono comparsi entro 15 giorni dall’inizio dei sintomi, come nel caso del vaccino.

Quanto a lungo si rimane protetti dopo la vaccinazione

Di recente i tempi tra la prima e la seconda dose sono stati allungati. Cosa cambia in termini di efficacia? «Lo studio italiano conferma una protezione di diversi mesi, che alcuni lavori condotti all’estero hanno indicato arrivare anche fino a 12 mesi. Con il vaccino, però, funziona in modo differente: la prima dose porta a sviluppare gli anticorpi, mentre è la seconda che dà la durevolezza della risposta del sistema immunitario. Per questo chi ha avuto la malattia riceve solo una dose, che serve a prolungare l’immunizzazione» spiega Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive all’ospedale San Martino di Genova.

Seconda dose: quando è meglio farla?

Quando fare, allora, la seconda dose per avere la miglior efficacia possibile? «Va premesso che l’efficacia è un parametro che viene misurato alla fine del ciclo vaccinale, per cui i test hanno mostrato che chi è vaccinato in maniera completa si infetta in misura totalmente minore rispetto a chi non è vaccinato. Per quanto riguarda l’intervallo tra una somministrazione e l’altra, la direttrice medica di Pfizer ha appena ribadito che il protocollo autorizzato prevede 21 giorni. Sappiamo, però, che un’analisi di un team di ricercatori canadesi, pubblicata sul British Columbia Medical Journal e condotta su un campione consistente, ha mostrano che l’efficacia non cambia anche in caso di intervallo più lungo tra la prima e la dose» spiega l’immunologo Andrea Cossarizza, professore ordinario presso l’Università di Modena e Reggio Emilia.

Aumentare l’intervallo per vaccinare più persone

«Io parlerei di rischio calcolato, perché è vero che i vaccini sono stati approvati per essere somministrati all’interno di determinate finestre temporali che, per essere cambiate, necessiterebbero di nuovi trial in fase 3, ma non bisogna dimenticare l’esempio del Regno Unito: lì la seconda dose del vaccino AstraZeneca è stata somministrata anche dopo 12 settimane invece che 4. Significa che si possono allungare i tempi e questo permette un enorme vantaggio: poter vaccinare, nello stesso lasso di tempo, più persone possibile. In un altro momento forse non lo avremmo fatto, ma oggi che non abbiamo a disposizione un numero illimitato di fiale si tratta di un’operazione di buon senso» spiega Bassetti.

«Allungando l’intervallo si dà a un maggior numero di persone la possibilità di essere protette perché il vaccino, anche con una sola dose, dà una protezione alta rispetto all’infezione, quindi alla possibilità di essere contagiati, e altissima rispetto a una eventualmente forma grave della malattia Covid» aggiunge Cossarizza.

Seconda dose con un altro vaccino: si può?

Dopo la decisione dell’Ue di non rinnovare il contratto con AstraZeneca, si è posto il problema di una eventuale scarsità di dosi per i richiami in chi aveva già ricevuto la prima dose. Alcune Regioni, come Lombardia, Piemonte e Abruzzo si sono dette pronte a ricevere quelle rifiutate da altri. In alcuni paesi europei come la Danimarca, invece, si è deciso di non somministrare più il siero di Oxford, mentre in Germania è stato scelto di effettuare i richiami con vaccini differenti, come Pfizer e Moderna.

Nel Regno Unito, intanto, è in corso uno studio preliminare, prima di autorizzare eventualmente una seconda dose con un siero che non sia AstraZeneca: «In effetti non sappiamo cosa possa accedere cambiando il tipo di vaccino, ma io sono curioso di vedere i dati delle sperimentazioni perché ogni vaccino – spiega l’immunologo Cossarizza – ha lo scopo di far produrre al nostro organismo la proteina Spike, a prescindere dalla tecnologia utilizzata. Immagino, quindi, che le cellule che riconoscono la Spike dopo la prima dose di vaccino con la seconda possano migliorare, come devono, le loro prestazioni. Nonostante la proteina venga prodotta in modo diverso, è pur sempre la stessa. Va anche considerato che i dati disponibili finora mostrano che chi non ha avuto problemi con la prima dose non ne ha neppure con la seconda, quindi non c’è ragione di credere che ciò accada cambiando il vaccino».

Dopo due dosi si è protetti?

A far discutere è anche l’annuncio da parte dei Centers for Diseases Control americani e delle autorità britanniche secondo cui chi ha completato il ciclo vaccinale può “tornare ad abbracciarsi” e a fare a meno della mascherina all’aperto, in assenza di assembramenti. «A sostenerlo è anche il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, che ha aperto a questa eventualità quando si sarà raggiunto il 50% della popolazione vaccinata: è anche questa un’apertura di buon senso. Il motivo è semplice: se una persona è vaccinata non correrà più il rischio di ammalarsi in forma grave, al massimo avrà un po’ di febbricola o una forma simil-influenzale, quindi non ha senso continuare a portare la mascherina all’aperto. Lo stesso vale per il tampone: se una persona immunizzata entra in contatto con un positivo non serve sottoporsi a test, perché anche se avesse una carica virale bassa non correrebbe pericoli. È esattamente quello che accade con altre malattie infettive come il morbillo: quando io entro in un reparto dove ci sono malati di morbillo non indosso certo la mascherina, né faccio il tampone. Non si capisce perché il Covid vada trattato diversamente rispetto alle altre malattie infettive con le quali abbiamo a che fare da 50 anni a questa parte» spiega Bassetti.

Rischio varianti: servirà un terzo richiamo?

Servirà anche un terzo richiamo, per proteggersi dalle varianti? «I dati presentati finora da Pfizer e Moderna mostrano che i due vaccini coprono rispetto a tutte le varianti note e in circolazione oggi, anche quelle più contagiose o aggressive. Presumibilmente, invece, accadrà che faremo un richiamo annuale per garantire la copertura, esattamente come avviene per l’influenza stagionale – spiega l’infettivologo del San Martino – Su AstraZeneca sono in corso studi sia da parte dell’ospedale Spallanzani sia nel Regno Unito, quindi aspettiamo i dati».

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