Violenza: le donne non denunciano perché sono sole

La Commissione d'inchiesta al Senato sul femminicidio presenta la sua relazione su 1500 fascicoli processuali. Tra tanti dati, uno colpisce su tutti: il 63 per cento delle donne non rivela a nessuno la violenza di cui è vittima. Abbiamo incontrato la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione: «Le leggi ci sono ma vengono applicate male, e soprattutto la violenza non viene decifrata». Pronto un disegno di legge che può fare la differenza

La violenza è vissuta in totale solitudine. La maggior parte delle donne vittime di violenza (circa i due terzi) non parla, non si confida e soprattutto non chiede aiuto a nessuno. La Commissione d’inchiesta al Senato sul femminicidio e sulla violenza di genere, che per più di un anno ha studiato 1500 fascicoli processuali, ora rende pubblica la sua relazione. E inchioda tutti noi alle nostre responsabilità. Tantissimi sono i dati prodotti, numeri che nero su bianco documentano in modo oggettivo ciò che già si sa sulla violenza contro le donne. Ma ora, ancora di più, nessuno potrà dire che non sapeva. La relazione infatti viene presentata a tre ministeri (Pari Opportunità, Interni e Giustizia), cioè le istituzioni più coinvolte in questo fenomeno, con lo scopo di chiedere al Parlamento di condividere atti di indirizzo e sollecitare il governo a prendere misure per contrastare questo fenomeno. Che, in realtà, riguarda tutti noi perché la violenza di genere è una pandemia, cronica e strutturale in tutte le culture, come si legge nel preambolo della Convenzione di Istanbul: «La violenza di genere è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione». 

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Dobbiamo indignarci tutti

La relazione insomma è una chiamata in causa di tutta la rete che dovrebbe accogliere, sostenere e proteggere le donne. E un invito a cambiare marcia. Lo spiega bene la senatrice Valeria Valente, avvocata e presidente della Commissione: «La Commissione dimostra che le donne non denunciano perché in molti casi la risposta non c’è, oppure non è adeguata, o si sentono colpevolizzate. Occorre una rivoluzione culturale e civile come negli anni Novanta, dopo le uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino. Dobbiamo indignarci tutti e impegnarci perché le donne non siano discriminate, a tutti i livelli, dall’accesso al lavoro alle scelte di vita. La violenza nasce dalla discriminazione». Eppure dagli anni Ottanta il cambiamento è stato enorme: «Prima la cancellazione del delitto d’onore, poi le norme anti stalking e le misure di protezione rafforzate, quindi il Codice rosso. Se qualcosa non funziona va cercato altrove». E questo altrove è nella nostra testa. «Se il 34 per cento degli uomini autori di femminicidio si suicida, vuol dire che è disposto a tutto, e che neanche la paura di una pena superiore li frena. Non serve quindi aumentare le pene».

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Occorre spogliarsi dei pregiudizi

Verrebbe facile cedere a istinti forcaioli, ma non è la strada giusta. In 10 giorni sono state uccise cinque donne e tre bambini, alcune avevano già denunciato, eppure non sono state credute né ascoltate e le misure di protezione sono state insufficienti. «Intorno alle donne bisogna stringere una catena di protezione con protocolli condivisi, in modo che tutti, dal medico di base all’agente di polizia all’avvocato, sappiano leggere le violenza» dice la senatrice. «Cosa vuol dire? Ogni avvocato, poliziotto, carabiniere, assistente sociale, fino a arrivare ai giudici, è prima di tutto una persona, cresciuta e immersa in un contesto culturale come il nostro pieno di pregiudizi contro le donne: difficile disinnescare gli stereotipi che ancora vedono i legami familiari fondati sulla naturale sottomissione femminile a precisi obblighi e ruoli di genere». Si legge nella relazione: «Quando le donne che non soggiacciono a questo meccanismo culturale e gerarchico denunciano o si separano, non sono sempre da tutti percepite come persone offese da proteggere e di cui tutelare il diritto umano a una vita libera e dignitosa ma, al contrario, sono talvolta ritenute “astute calcolatrici” e mosse da una volontà vendicativa nei confronti dei loro compagni anche attraverso i figli». 

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Occorre imparare a leggere la violenza (e scriverla)

E questo condiziona tutto il processo e distorce la percezione della violenza, che non viene colta, capita, decifrata. «Spesso la pregressa condotta violenta dell’uomo nei confronti della donna è definita come “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, difficile, instabile, non tranquilla, caratterizzata da conflittualità domestiche, tutt’altro che felice, ecc.”, anche a fronte di precedenti denunce per gravi maltrattamenti della vittima. In alcune sentenze il femminicidio è qualificato come impulso mosso da sentimenti, rispetto al quale si ricorre spesso a un linguaggio emozionale. Le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, mentre gli imputati per cognome, generando una discriminazione, anche linguistica e simbolica, non giuridicamente giustificabile; le vittime di femminicidio non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e/o professionale, ma sono indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare; le vittime di femminicidio quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così vittimizzandole e stigmatizzandole». Al contrario, l’autore della violenza viene valorizzato: «la condizione di disagio sociale del violento è spesso valorizzata (alcoldipendenza, tossicodipendenza, ludopatia, perdita del lavoro, malattia, ecc.), e sembra quasi legittimata la re-azione a comportamenti della vittima che viene colpevolizzata per avere “provocato, tradito, accusato, ecc”». Insomma, i pregiudizi rischiano di capovolgere e distorcere i fatti spostando o attenuando, inconsapevolmente, la responsabilità: l’autore esprime sentimenti e passioni; la vittima non esercita diritti, ma provoca reazioni inconsulte. 

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Anche gli uomini sono prigionieri di gabbie mentali

La formazione di tutti gli operatori è fondamentale. «Spesso la risposta del sistema giudiziario è adeguata, negli ultimi anni si sono fatti grossi sforzi e investimenti ma non basta» prosegue la senatrice Valente. «Ci vuole più cultura, specializzazione e investimenti in scuole e università, ma conta ancora di più costruire una civiltà più paritaria. La società ha cambiato modelli e gli uomini sono chiamati a un grande atto di responsabilità. Devono riscoprire il valore sociale della paternità e il senso della fragilità. Come ci sono aspettative sociali sulle donne, così esistono anche sugli uomini. Anche gli uomini sono prigionieri di gabbie mentali che li vogliono forti e potenti. Vanno liberati pure loro e la reazione al senso di inadeguatezza non può più essere la violenza». 

Più misure di protezione, più intercettazioni, più poteri alla vittima

In Senato sta per essere approvato in via definitiva un disegno di legge – su iniziativa dei componenti della Commissione d’inchiesta – che punta a intercettare prima la violenza e proteggere meglio le donne, rafforzando le misure già esistenti e usandole meglio: per esempio con l’obbligo di bracciale elettronico per chi è sottoposto a misure cautelari diverse dal carcere, la libertà vigilata, l’obbligo dell’incidente probatorio per ascoltare le vittime, la possibilità di fare le intercettazioni. Strumenti legali che però vanno poi applicati. «La norma è astratta ma va sempre calata nel caso concreto. Occorre capire quando si è di fronte a una relazione con una forte asimmetria di potere, occorre saper leggere il contesto. La violenza non è un raptus del momento ma il risultato di un’escalation e di una dinamica di coppia sbilanciata su cui dobbiamo lavorare tutti». Anche noi giornalisti: per favore, tra i raptus del padre di famiglia, lei che lo voleva lasciare, lui che l’amava troppo, l’amore almeno non chiamiamolo più “violento”. Se è violento, non è amore.

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