ragazza sorride sovrappeso

E tu quanto sei body positive?

Ce lo dicono di continuo: non esiste più la perfezione, ci sono tanti tipi di bellezza, bisogna andare fiere dei nostri difetti. Eppure 6 donne su 10 continuano a essere insoddisfatte del proprio aspetto. Come superare questa contraddizione?

Su Instagram parliamo di body positivity

Rivedi la diretta Instagram di giovedì 7 luglio. La nostra direttrice Maria Elena Viola dialoga con la filosofa Maura Gancitano sul corpo, la bellezza e la libertà dai giudizi altrui che tutte reclamiamo. Ma siamo sicuri che la body positivity abbia aiutato? Siamo sicuri che non abbia a sua volta creato un’altra serie di modelli a cui conformarsi?

Quella sensazione di non essere mai abbastanza

Quando la vedo per la prima volta, Sara, 36 anni, indossa una gonna lunga a fiori, che svolazza al vento come i suoi capelli biondi. «Mi piacerebbe avere il coraggio di mettere una mini, come le mie amiche, ma non ce la faccio. Le mie gambe proprio non mi piacciono» confessa, alzando leggermente l’orlo, quasi a cercare la mia approvazione. «Non essere a proprio agio con se stessi» prosegue «è faticoso, devastante. È come se mi sentissi tradita dal mio corpo ogni volta che non è come dovrebbe essere. Aspetto il momento in cui potrò fare tutte le cose che sogno e indossare tutti gli abiti che desidero, quando sarò abbastanza bella, abbastanza felice, abbastanza sicura di me. Quando il mio corpo finalmente sarà come “deve” essere».

Il 61% delle persone prova avversione per il proprio corpo

Questa sensazione di inadeguatezza, di non accettazione, non la prova solo Sara. Una ricerca pubblicata di recente sul Journal of Epidemiology & Community Health dice che il 61% delle persone prova avversione per il proprio aspetto fisico. Tra loro c’è anche Carlotta, che ha 43 anni e da quando era una ragazzina lotta con la pelle del suo viso: «mai abbastanza», come la definisce lei, per colpa dei pori e di qualche brufolo. «Tutti mi dicono che dovrei fregarmene, ma io non ce la faccio. Quando mi guardo allo specchio, non mi piaccio. E se devo uscire, anche solo per fare la spesa, mi trucco». Non importa che sui social impazzi la cosiddetta #skinpositivity, perché la sensazione di Carlotta resta quella. Costante, sottile. Non un malessere grave, certo, ma comunque qualcosa che «vorrei cancellare con una gomma» dice lei, guardandosi in una vetrina per controllare se il suo viso è a posto.

La body positivity non basta: il giudizio passa ancora per il corpo

«Grazie alla body positivity si parla di tanti modelli di bellezza» spiega la filosofa Maura Gancitano di Tlon, autrice del saggio Specchio delle mie brame (Einaudi). «Ma la nostra identità è ancora strettamente legata al modo in cui appariamo, che viene giudicato in base a un certo canone, piuttosto ristretto e selettivo». Oggi, in effetti, bello è ciò che non dà fastidio, che è piacevole, che rientra negli standard. È un ideale apollineo, misurabile. «L’idea di bellezza ha subìto, con la società borghese, uno spostamento di significato: si è spogliata del mistero, dell’imprevisto, ed è diventata un modello standardizzato che colonizza i pensieri delle donne, facendole spesso sentire inadeguate. Il risultato è che viviamo in un mondo in cui le persone potrebbero essere finalmente libere eppure, al contrario, ha valore e dignità solo ciò che risponde a determinati parametri» continua la filosofa che, lei per prima, ha sofferto per un corpo in qualche modo lontano da quegli standard.

Bisogna prendersi cura di se stessi al di là del corpo

«Ho iniziato a vergognarmi del mio grasso all’età di mia figlia, che ha 11 anni, e la vergogna era legata alla paura che percepivo intorno a me quando mi sedevo a tavola o dovevo provare dei vestiti nei camerini o frequentavo una lezione di danza. Non serve che te lo dicano chiaramente, lo percepisci. È una questione di linguaggio non verbale, è il modo in cui ci si avvicina o ci si allontana dal tuo corpo. Quanto sarebbe stata più facile la vita se fossi stata educata a prendermi davvero cura di me, senza avvertire il mio corpo come un peso che dovevo portarmi appresso».

La body positivity ha creato altri modelli di corpo

Quel peso che Sara, Carlotta e molte di noi percepiscono, che ci nega un sorriso, che continua a farci sentire sbagliate davanti allo specchio. «Il nostro corpo viene investito dell’aspettativa di dover essere l’abito della nostra identità, quello che ci rappresenta nel migliore dei modi» spiega Sofia Bignamini, psicologa e psicoterapeuta. «E per farlo deve essere un corpo prestativo a tanti livelli. Non deve essere solo bello, in forma, tonico, ma anche forte, sicuro, originale» continua l’esperta. È come se le cose, quindi, si fossero complicate. «È vero, la body positivity ha creato una maggiore flessibilità ma non ha abbassato gli standard, anzi. È aumentata la complessità dei modelli di riferimento e viene sempre premiata la performance, l’essere attraenti, seduttivi» dice Bignamini. «Questo spinge soprattutto i ragazzi a farsi più domande, a guardarsi con più attenzione, a essere più severi con loro stessi per cercare di costruirsi un ruolo, un personaggio, di cucirsi quell’abito che li possa identificare agli occhi degli altri».

Prova costume: la vergogna poi in spiaggia scompare

Chiacchierando con Sara mi è subito chiara la severità di cui parla la psicoterapeuta: per lei ogni minimo difetto delle gambe è una montagna da scalare, una cicatrice da nascondere, una gonna corta da lasciare chiusa nell’armadio. Quando invece potrebbe tranquillamente indossarla. «Il fatto di guardare in continuazione sui social immagini di fisici perfetti, spesso nella solitudine delle proprie camere, esaspera la severità verso le imperfezioni del nostro corpo» continua Sofia Bignamini.
Un esempio che tutte noi conosciamo? La prova costume. «Quando siamo sole nel camerino di un negozio, di solito proviamo un senso di impresentabilità. Ma appena andiamo in spiaggia e ci caliamo nella realtà di corpi reali come i nostri, con i loro difetti, il nostro sguardo si riadatta e spesso quella spiacevole sensazione di vergogna scompare» dice la psicoterapeuta.

Il corpo oggi non conta per ciò che sente ma per come appare

Se da un lato ci sentiamo costantemente addosso gli occhi degli altri, dall’altro ci sentiamo invisibili perché non veniamo visti per quello che realmente siamo, per quello che proviamo. «In una società dell’immagine come la nostra, la centralità dello sguardo è assoluta. È come se la vista, nel guardare e nell’essere guardati, fosse iper stimolata. A discapito dell’esperienza del sentire che invece è disinvestita. Succede quindi che il nostro corpo diventi una superficie bidimensionale che viene guardata ma che non sente» approfondisce Sofia Bignamini.

Basta parlare del corpo, la bellezza è tanto altro

Ma uscire dalla prigione della bellezza intesa come norma secondo cui giudichiamo noi stessi e gli altri, come un dovere sociale, come un impoverimento del “sentire”, è possibile. «Io credo sia importante recuperare l’enigma della bellezza, distinguendola dal giudizio sui corpi, dai criteri e dalle misure da rispettare. L’estetica, infatti, è la scienza delle sensazioni: viene dal greco aisthesis, che significa sensazione, cioè ha a che fare con ciò che sentiamo attraverso i sensi. Domandarci cosa percepiamo come bello significa cercare di capire chi siamo, cosa ci tocca, cosa ci emoziona. Non penso che smettere di parlare di bellezza sia una soluzione, anzi: dovremmo cercare di riappropriarci di questa parola, che è più un interrogativo che un’affermazione. Un’intuizione, una fessura che si apre in un mondo sempre più misurabile» conclude la filosofa. E se la interpretassimo nel modo corretto probabilmente non si ripeterebbe quello che è successo a Vanessa Incontrada, più volte vittima di body shaming. Perché smetteremmo di parlare solo del suo corpo, anche se in chiave positiva, lasciando spazio a tutte le altre cose. Perché, cambiando punto di vista, potremmo cominciare a parlare dei nostri desideri e talenti, liberandoli dalla prigione.

La colpa riguarda il fare, la vergogna l’essere

Forse riusciremmo anche a non vergognarci più. «Non è facile perché ci si vergogna di vergognarsi. E perché, a differenza della colpa che è più “riparabile” perché riguarda il fare, la vergogna è pervasiva perché riguarda l’essere. Ma sdoganarla è possibile, innanzitutto raccontandosi di più, senza aver paura di usare l’umorismo e l’autoironia, che sono le armi più evolute che abbiamo, quelle che ci possono far sentire più comodi nel nostro corpo e nelle relazioni» conclude Sofia Bignamini. E Sara ce l’ha fatta. Qualche giorno dopo la nostra intervista mi ha mandato questo messaggio: «Ieri sera ho messo per la prima volta la minigonna».

Riproduzione riservata