La copertina di "1990", il nuovo album di Achille Lauro

Gli anni Novanta di Achille Lauro

È tornato con un nuovo disco, 1990, in cui omaggia l’eurodance di quegli anni. E che lo conferma come una delle popstar più divisive e divertenti del nostro Paese

Achille Lauro torna a far parlare di sé. Questa volta con un album, 1990, anno della sua nascita, che è un inno alla musica dance di quegli anni e, allo stesso tempo, una celebrazione della verve provocatoria di Lauro De Marinis, il suo vero nome. Il trapper, infatti, ha ormai completato la sua trasformazione in popstar ed è oggi uno degli artisti più interessanti del panorama italiano, non tanto per le sue proposte musicali – non è certo la voce il suo punto di forza – quanto per la sua capacità di posizionarsi al centro delle cronache grazie alle sue provocazioni e al modo in cui gioca con la sua immagine. Ne ha dato prova sul palco dell’ultimo Sanremo, quando ha scandalizzato con la sua tutina aderente e i look pensati per lui dal direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, regalando momenti di spettacolo e polemica senza i quali il Festival sarebbe stato decisamente molto più noioso.

Per 1990 diventa una Barbie-Ken e sfoggia stivaloni in latex a metà coscia con tacchi a spillo: nell’immagine promozionale del disco appare “crocefisso” su una croce fatta di Big Babol. Risultato? Cartellone ritirato, non si sa per davvero o se faceva parte della promozione anche quello. «Questa è l’immagine che avreste visto oggi nel maxi-cartellone di Corso Como a Milano, ma la pesante mano della censura delle pubbliche affissioni lo ha impedito. Io invece la regalo a tutti voi e come sempre “Me ne frego”», ha scritto su Instagram.

Un album «per farci divertire»

Con il suo solito tono a metà tra la spacconeria e la presa in giro, qualche tempo fa Lauro aveva annunciato sui suoi canali social che stava lavorando a due nuovi album: con il primo (che è proprio 1990) ci avrebbe fatto divertire, mentre con il secondo avrebbe «cambiato la musica italiana». Gli sfottò non sono tardati ad arrivare, ma l’artista romano ha dimostrato di saper gestire bene il veleno del web con una strategia molto efficace: semplicemente ignorandolo.

1990, che è prodotto da Dardust, DIVA, God Tribe e Marnik, si avvale della collaborazione di molti altri artisti della scena contemporanea, tra cui i rapper Ghali, Gemitaiz, Massimo Pericolo e Capo Plaza, ma anche la cantante Annalisa. A spiccare, però, sono i “featuring” con gli artisti che hanno fatto la storia della dance anni Novanta, da Alexia, con cui canta You and Me, a Benny Benassi per I Wanna Be an Illusion, brani che rimandano immediatamente alle atmosfere spensierate di quel decennio. Non manca il pezzo ispirato a Scatman, che diventa Scat Men con Ghali e Gemitaiz, e la stessa 1990, che invece riprende il ritornello di Be My Lover dei La Bouche, hit icona di quegli anni.

Tra polemiche, cambi di look e autoironia

Che Achille Lauro ci abbia preso gusto a provocare reazioni accese, è chiaro, e il modo in cui ha costruito il suo personaggio pubblico dalla prima apparizione a Sanremo nel 2019, con Rolls Royce, a oggi, lo dimostra una volta di più. Abbandonata la nicchia per giovanissimi della trap italiana, con 1969 Achille Lauro compie una decisa virata verso il pop, dopo Barabba, che risale al 2013, in cui raccontava l’adolescenza difficile e il rapporto con droghe e criminalità, Achille Idol – Immortale (2014), l’ep Young Crazy (2015) e il primo album solista Dio c’è (2015). Nel 2016 è la volta di Ragazzi Madre e nel 2018 Pour l’amour, il disco con cui ha lanciato l’ibrido della “samba-trap”.

Ma è soprattutto con il look che Achille Lauro sa giocare al meglio. L’esperimento con Gucci a Sanremo ne è la dimostrazione perfetta: la popstar, infatti, gioca con i generi, li confonde, vestendosi da donna e omaggiando i grandi del passato come David Bowie e il nostro Renato Zero che, prima (e meglio) di lui, hanno sdoganato la fluidità e il diritto a esplorare la mascolinità al di fuori di rigidi standard.

Lo ha scritto anche nella sua autobiografia sui generis, Sono io Amleto (Rizzoli 2019), che la sua insofferenza a certi modi maschilisti gli viene da un’infanzia e un’adolescenza passata in mezzo a «Cinquantenni disgustosi, maschi omofobi. Ho avuto a che fare per anni con ‘sta gente volgare per via dei miei giri. Sono cresciuto con ‘sto schifo. Anche gli ambienti trap mi suscitano un certo disagio: l’aria densa di finto testosterone, il linguaggio tribale costruito, anaffettivo nei confronti del femminile e in generale l’immagine di donna oggetto con cui sono cresciuto». Ecco perché i suoi tacchi alti ci piacciono così tanto.

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