Junk – Armadi Pieni

JUNK: la docuserie sul lato oscuro del fashion

"JUNK – armadi pieni” è il documentario-inchiesta prodotto da Sky e Will Italia, con la partecipazione di Matteo Ward. Un giro del mondo tra Cile, Ghana, Bangladesh, Indonesia, India e Italia, alla scoperta del lato oscuro del fashion. Che anche noi ti raccontiamo qui

La docuserie JUNK – armadi pieni

Junk significa “robaccia”. Come quella che acquistiamo in forma di t-shirt e jeans nelle catene di abbigliamento low cost e che, anche se noi non lo vediamo, finisce per diventare una montagna di rifiuti indistinguibili con gravi conseguenze su persone ed ecosistemi lontani. Si apre con queste immagini la docuserie JUNK – Armadi pieni: mercati sovraffollati, uomini che scaricano dai camion enormi balle di vestiti e donne che le trasportano sulla testa. Camminando, indumenti che opprimono da tutti i lati, ghanesi che ricolorano e stirano jeans, centinaia di scarpe ammassate; tra loro anche Nike e qualche Birkenstock. E poi bambini e ragazzi che cercano pezzi di metallo tra mucchi di stracci, come fossero conchiglie sotto la sabbia.

Junk – Armadi Pieni

Dove vedere JUNK

La docuserie JUNK – Armadi pieni è realizzata da Sky e Will Italia con la partecipazione di Matteo Ward, imprenditore, divulgatore e attivista, che ha curato la ricerca dei contenuti scientifici della docuserie, scritta e diretta da Olmo Parenti e Matteo Keffer di A Thing By. JUNK è visibile sul canale YouTube di Sky Italia, on demand su Sky e su NOW. A partire da sabato 8 aprile la docu-serie sarà proposta anche su Sky TG24.

Il costo sociale e ambientale del fashion

JUNK è un viaggio di sei puntate ambientate in sei Paesi diversi: Cile, Ghana, Bangladesh, Indonesia, India e Italia. Ad accomunarli, la forma visibile del costo sociale e ambientale della fashion industry. In Cile e Ghana, le discariche tessili del mondo, viene affrontato il tema degli scarti. In Indonesia si scopre invece come la produzione di fibre artificiali stia annientando la biodiversità del Paese. In Bangladesh viene mostrato cosa è cambiato, e cosa no, a dieci anni dal Rana Plaza, il più grande incidente avvenuto in una fabbrica tessile, con 1134 vittime. Il viaggio prosegue in India, dove una richiesta sempre maggiore ha stravolto la cultura della coltivazione del cotone, per concludersi in Italia. Il documentario-inchiesta, definito “un’opera d’arte estensiva” dall’artista Michelangelo Pistoletto, arriverà su Sky il 4 aprile.

Dove finiscono i vestiti che scartiamo

Nel primo episodio siamo in Ghana, nell’Africa Occidentale, sul Golfo di Guinea. Piedi nudi e bagnati. Matteo Ward e alcuni uomini ghanesi si trovano su un’imbarcazione: sono le cinque del mattino e si stanno dirigendo verso Accra, la capitale del Paese. La loro meta è Kantamanto, il cosiddetto “mercato di salvataggio” delle aziende fast fashion, dove ogni settimana arrivano circa 15 milioni di capi di abbigliamento raccolti dai Paesi occidentali. Tutto ciò che da noi resta invenduto e non può essere indirizzato attraverso alcun canale distributivo, viene recapitato qui. Un esempio? I vestiti di fine stagione, anche quelli invernali che in Africa non servono a nessuno. I ghanesi chiamano i nostri vestiti “Obroni Wawu”, cioè “Vestiti dell’Uomo Bianco Morto”, perché nella loro cultura gli abiti si buttano via solo quando si muore. Kantamanto è un labirinto soffocante di sette acri, oltre 5.000 bancarelle e milioni di Obroni Wawu. Lì, quello che per i grossisti è un’opportunità, per i venditori e per la popolazione è un problema o tutt’al più un lavoro che chiamano “dalla mano alla bocca”, perché appena sufficiente per sfamare i figli. La nostra industria tessile uccide la loro, oltre alle loro acque, le loro strade, i loro diritti.

Il costo ambientale del fashion

«Pensa a queste immagini, la prossima volta che apri l’armadio». Le immagini di cui parla Sara Maino, direttore creativo della Fondazione Sozzani, sono quelle che JUNK mette a disposizione. Sono immagini di montagne di rifiuti che non permettono di vedere il terreno. Sopra, mucche che cercano, e non trovano, erba da mangiare. Ai margini delle baraccopoli ghanesi, il paesaggio è dominato da ammassi marroni che a volte prendono fuoco: sono strati di vestiti accumulati negli anni, alti come case, di cui non si riescono a decifrare i colori, i marchi, i modelli originali. Possono essere ciabatte Gucci, t-shirt Nike o comunissimi jeans: ormai nessuno se ne ricorda più. Le stesse pennellate di scarti tessili hanno formato una scogliera di rifiuti: onda dopo onda, sulle coste ghanesi il mare porta i vestiti che nei Paesi occidentali l’industria della moda aveva prodotto per noi. Quando piove, creano enormi ragnatele aggrovigliate chiamate “tentacoli nella sabbia”. Come dice Matteo Ward, quello che da noi è bellezza, in Africa diventa l’inferno. Perché «dietro le tende è tutto sporco. Noi qui viviamo nei vestiti dell’uomo bianco morto», spiega Sammy Oteng, fashion designer di Accra e manager di Or Foundation.

JUNK e gli scarti del fashion

Will Italia, media company e spazio di divulgazione, ha approfondito il problema dell’impatto della filiera della moda sulle persone e sull’ambiente. Sul loro profilo Instagram si legge: «solo in Europa, dove importiamo la maggior parte dei vestiti, ogni anno scartiamo 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili. Circa 11 kg a persona». Molti di questi scarti, difficilmente riciclabili, lasciano l’Europa e finiscono nelle discariche naturali di altri paesi. Basti pensare che sotto la sabbia del bellissimo Deserto dell’Atacama, in Cile, ci sono migliaia di tonnellate di scarti tessili. E così, quello che rimane dei vestiti che non ci piacciono più diventa una realtà talmente lontana che, ai nostri occhi, smette di essere un nostro problema. E invece, tutto parte proprio da noi. Basta pensare che buttiamo 9 capi su 10 prima del previsto e restituiamo circa il 30% dei vestiti comprati online. JUNK, in questo senso, è rivelatore. «Nel documentario ci sono tante realtà, tante storie e la forza di unirle», ha detto Matteo Ward. Per mostrare il prezzo dei nostri armadi pieni, che è molto più alto di quello che leggiamo sul cartellino.

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Upcycling: far ornare un capo alla stessa funzione

C’è tanto che noi, in quanto consumatori dei Paesi occidentali, possiamo fare per ridurre sempre di più l’impatto della nostra fashion industry su chi, ingiustamente, deve fare i conti con il nostro shopping compulsivo. La docuserie JUNK, i cui episodi terminano sempre con un concreto esempio di speranza, vuole proprio restituire agli spettatori la certezza che cambiare le cose è ancora possibile e che tutti noi abbiamo un ruolo da giocare. Una delle soluzioni percorribili prende il nome di “upcycling”, che per i tre giovani ghanesi ripresi nel documentario è un lavoro, nonché un impegno a salvare il proprio Paese. Uno di loro dice: «Esci il venerdì sera: ti serve davvero un nuovo vestito? O devi solo guardare l’armadio da un’altra prospettiva? L’unico tuo limite è la capacità di saper re-immaginare il mondo». Quello dell’upcycling è un riciclo diverso da quello che tutti noi abbiamo in mente, il cui obiettivo a volte è quello di far tornare un oggetto alla stessa funzione, a volte quello di trasformarsi perdendo valore.

Downcycling: trasformare un capo in un altro

Per questo motivo, il riciclo comune viene anche chiamato “down-cycling”. L’upcycling, al contrario, consiste nel riutilizzare gli oggetti per creare un prodotto di maggiore qualità, reale o percepita. Un esempio? Si può dare una seconda vita a un capo che altrimenti sarebbe stato buttato via perché rovinato, della taglia sbagliata o semplicemente non più di proprio gusto. Attraverso la creatività e l’antica arte della sartoria, si può accorciare, tagliare, aggiungere fantasie e bottoni. E così ottenere un capo nuovo, unico e originale senza aver prodotto, consumato o buttato. Il modo sostenibile di vestirsi, tuttavia, non si esaurisce qui, perché c’è tanto altro che possiamo fare per contrastare l’impatto negativo della fashion industry. Ci si può ispirare ai giovani, che amano organizzare swap party, soprattutto dopo il cambio armadio, in cui ci si scambia il guardaroba con gli amici. E poi ci si può impegnare a comprare capi di seconda mano, che costano poco e spesso hanno pure il fascino di altri tempi. Insomma, le soluzioni non mancano. Ecco perché Matteo Ward, al termine del documentario, si è espresso così: «Non possiamo fermarci a constatare quanto faccia schifo il nostro mondo. Dobbiamo cercare il cattivo dentro di noi e tirare il freno di emergenza. Smettiamo di comprare quello di cui non abbiamo bisogno. E soprattutto non stanchiamoci di trovare soluzioni, anche ai problemi più grandi».

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