Cosa racconta l’autobiografia di Matthew McConaughey

L’attore texano ha scritto un’autobiografia sorprendente, piena di aneddoti ed emozioni: dalla morte improvvisa del padre alle fughe in monastero, alla passione per la filosofia

A 51 anni il texano più famoso di Hollywood è un uomo affascinante, loquace ma so- prattutto generoso. Lo scopro quando mi collego su Zoom per parlare con lui della sua prima autobiografia, “Greenlights. L’arte di correre in discesa” (Baldini+Castoldi), a metà tra memoir tradizionale e diario: 320 pagine piene di storie, foto, premonizioni e riflessioni così illuminanti che viene voglia di prendere appunti. «I semafori verdi del titolo sono i segni con cui l’universo ci dice che stiamo andando nella direzione giusta; i gialli o rossi le deviazioni che ci rallentano ma di cui forse abbiamo bisogno» mi dice, gli occhi azzurri nascosti dietro un paio di lenti gialle e i capelli biondi legati dietro la nuca. Appassionato di filosofi come Emerson e Nietzsche, si reputa un lettore lento, più bravo a mettere i pensieri su carta che a leggere. Non è un nostalgico, tanto che non rivede mai i suoi film: «Scrivo diari da 36 anni, ma ne ho impiegati 15 per trovare il coraggio di riprenderli in mano. Credevo che vi avrei trovato episodi ridicoli o imbarazzanti, ma sono grato a ogni esperienza perché ha contribuito a farmi arrivare qui». A 14 anni si poneva già le stesse domande che lo assillano oggi: «Cosa ci faccio qui? Qual è il senso di tutto? Ho sempre cercato di condurre una vita autentica e mi sono focalizzato sulla mia crescita interiore, dando la priorità a chi sono e chi voglio essere e fregandomene spesso dei soldi e del successo. Non ho mai inseguito le cose che potessero mettere a rischio la mia anima».

La biografia di Matthew McConaughy (Baldini+Castoldi)
La biografia di Matthew McConaughy (Baldini+Castoldi)

Non ci sono uffici stampa a mediare la conversazione, durante la quale McConaughey parla a ruota libera di famiglia, delusioni, successi e riti di passaggio: dalla morte del padre stroncato da un infarto quando lui era da 5 giorni sul set del suo film d’esordio, alle avventure in solitaria per ritrovare se stesso (in un monastero nel deserto, sul Rio delle Amazzoni o in Africa), fino all’incontro con la modella Camila Alves, “quella giusta”, la madre dei suoi figli (Levi, 12 anni, Vida, 11, Livingstone, 8). Nel libro accenna di sfuggita alle molestie subite a 18 anni mentre era svenuto nel retro di un furgone: «Se avessi fornito i dettagli sarebbero stati usati per fare i titoli sui giornali, ma non ho mai voluto che quell’incidente definisse la mia vita».

È seduto nello Smithsonian, uno dei 4 camper parcheggiati nella sua villa, dove trascorre questo periodo. «Mi sono vaccinato, ma dopo essere entrato in contatto con diverse persone ho deciso di isolarmi: mia madre Kay ha 89 anni e vive con noi, voglio stare attento» dice sorseggiando un centrifugato. Vanno d’accordo, ma a metà anni ‘90, quando è diventato una star con “Il momento di uccidere”, lei apriva la casa ai programmi tv, dando in pasto dettagli intimi della sua vita ai tabloid. «La gente sembrava sapere tutto di me, fu uno shock. Oggi so che la fama fa parte del gioco, ma all’epoca, per ricalibrarmi, partivo spesso in roulotte con il mio cane, per poter stare da solo, lontano dai riflettori. Ha visto Nomadland? Ci rivedo un po’ la mia vita: ho conosciuto tante persone che vivono on the road per scelta, come facevo io». Tra lui e Kay ormai quella è acqua passata, tanto che 12 anni fa Matthew ha lasciato Los Angeles per trasferirsi a Austin, Texas, e starle vicino. «Da piccolo mi ripeteva: “Cerca di essere il più possibile te stesso, perché così sarai unico e non somiglierai a nessuno”».

Lui ha preso quel consiglio alla lettera: dopo essere stato etichettato a lungo come il belloccio di commedie romantiche come Prima o poi mi sposo e Come farsi lasciare in 10 giorni, nel 2009 si è preso una pausa di 2 anni per voltare pagina. «Fare quei film era facile e pagava bene, ma non ero credibile in ruoli drammatici. Per cambiare carriera ho rinunciato a tante proposte, incluso un contratto da 14 milioni di dollari: i miei 2 fratelli dissero che ero pazzo». Ma così è entrato nella seconda fase della sua carriera, la McConaissance (termine coniato da lui stesso), durante la quale ha girato la serie cult True Detective e vinto un Oscar per Dallas Buyers Club. Alla fine del libro c’è una lista, scritta a 23 anni, sulle 10 cose da fare nella vita: l’Oscar è all’ottavo posto; al primo, diventare padre.

«La paternità è ancora la mia priorità» ammette. Dopo la nascita di Levi, lui e Camila hanno deciso che non sarebbero mai stati distanti, perciò i figli lo hanno sempre seguito sul set: «Voglio che siano curiosi, i loro passaporti sono pieni di timbri. Io e mia moglie insegniamo loro che nella vita abbiamo sempre una scelta, fino a un nuovo semaforo». Ce l’ha, oggi, una nuova lista di cose a cui aspirare? Scuote la testa: «Sono impegnato a vivere fino in fondo la storia iniziata il giorno in cui sono nato. So di volermi dedicare di più ai figli: tra 10 anni saranno cresciuti e vivranno lontani, devo essere ora il miglior padre e marito possibile».

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