Un abete. Di quelli alti e snelli che se ne stanno lì, apparentemente insensibili al tempo che passa, le radici aggrappate a terra chissà da quanto. Quando Laura Hoesch entra nella sala riunioni del suo studio, è la prima cosa che mi viene in mente. Un po’ è natura, un po’ attitudine. L’anagrafe dice che gli anni sono 87, ma a guardarla e a sentirla parlare è difficile crederci. Di questi, più di 60 li ha dedicati alla professione di avvocato.
Per chi frequenta il Tribunale di Milano, è un pezzo di storia: un filo di memorie e sentenze che lega l’evoluzione del diritto italiano dal pater familias alle famiglie arcobaleno e mette sulla linea del tempo il patriarcato, le rivoluzioni degli anni ’70, il divorzio e l’aborto, le discriminazioni delle donne sul lavoro. Una storia che ha scelto di raccontare nel libro Una delle tante, appena uscito per Baldini+Castoldi. «L’esordio letterario più tardivo di sempre» dice ridendo.
Il libro di Laura Hoesch racconta il percorso per i diritti delle donne

Perché questo titolo?
«Era come dire: una di noi. Non so se siamo state tante o poche, ma c’è una coscienza collettiva che lega il percorso che noi donne abbiamo fatto».
Come è finita a fare l’avvocata?
«Colpa di mia madre. Pensavo ad Architettura e lei mi ha detto: “Fai Giurisprudenza, che ti dà tante possibilità”. Le ho dato retta anche se era una pazza. Sono contenta di averla ascoltata».
La mamma di Laura Hoesch l’ha spinta a fare l’avvocata
In che senso “una pazza”?
«Aveva una dipendenza dal gioco, che è stato un dramma suo e di tutta la famiglia, ma al tempo stesso era una donna libera, strana, diversa da tutte le altre. Vorrei poterla conoscere adesso che sono vecchia e, quando guardo la vita, vedo cose diverse. Allora non vedevo la sua malattia, ma la crisi con mio padre».
Con il diritto è stato amore a prima vista?
«No. All’inizio non capivo nulla. Allora chiesi a mia madre di aiutarmi a trovare un avvocato dove fare pratica e lei mi portò da Marco Cartella, un omone alto e dinoccolato. Mi mise a lavorare nello sgabuzzino dove c’erano i grembiuli delle segretarie, ma quando riceveva i clienti mi teneva con sé. E lì, finalmente, ho capito che il diritto non era una materia astratta».
Le donne sono entrate in magistratura solo nel 1965
Che ambiente era, per le donne, il tribunale degli anni ’60?
«Tutto era maschile. I giudici erano solo uomini. Avvocate ce ne saranno state una decina al massimo. Quando andavamo in udienza, Cartella salutava i giudici dicendo: “Vostro Onore, le presento la mia unica allieva femmina!”. Poi le cose sono cambiate. Il primo ingresso massiccio di donne in magistratura è stato nel 1965, quando è stato aperto il concorso anche alle ragazze. Ma le avvocate le abbiamo attese ancora un po’».
Lei, in quell’ambiente così maschile, come si trovava?
«Cercavo di portare avanti la professione per come la intendevo io. Un professore mi definì “ragazza intelligente ma con poca voglia di lavorare” perché rifiutavo l’alto segretariato che ci si aspettava dalle avvocate. Più avanti, ho tentato di armonizzare il mio essere donna con la pratica di un lavoro maschile. Andavo in udienza e mi imponevo di essere aggressiva come i maschi, ma tornavo distrutta. Però è stata un’epoca esaltante».
Laura Hoesch si è occupata molto di diritti sociali
Perché? «La Costituzione, appena emanata, entrava nella vita reale con i suoi principi di uguaglianza, spazzando via la legislazione fascista. Noi avvocati facevamo le cause, i giudici pronunciavano le sentenze e quelle sentenze diventavano legge».
Quando è arrivata la voglia di occuparsi di diritti sociali?
«Con il diritto del lavoro, credo. Abbiamo fatto assumere per la prima volta le donne nell’azienda dei rifiuti cittadini, che non le voleva perché le considerava non abbastanza forti. Per non parlare dei vigili urbani: dovevano essere alti almeno 1,75, cosa che di fatto escludeva le donne e abbiamo ottenuto che quel parametro fosse dichiarato illegittimo».
Del diritto di famiglia, invece, quando ha cominciato a occuparsi?
«Più avanti. All’inizio non c’era la stessa apertura che trovavi nella sezione lavoro. Con il tempo, invece, è diventato la mia attività principale».
È stata tra le prime a difendere i diritti delle madri adottive.
«La mamma di Pietro Ichino, che dirigeva il Tribunale dei Minori, un giorno mi chiama e mi dice: “Ci sono due mamme adottive che vogliono i diritti delle madri biologiche”. Ho fatto le cause e le ho vinte con giudici maschi. Queste donne mi sembravano discriminate e non capivo che anche io lo ero. Me ne sono resa conto quando ho aperto uno studio con un gruppo di colleghi e, al momento di dividerci le spese, uno di loro mi disse che la mia quota l’avrebbe pagata lui, in cambio di qualche udienza».
Che cosa ha capito della famiglia nelle aule di tribunale?
«Che il pater familias c’è ancora e molte donne per denaro continuano ad accettarlo».
Ha dato anche grandi contributi allo sviluppo del diritto di famiglia
Dal suo divorzio, invece, che cosa ha imparato?
«Che l’obbligo di fedeltà andrebbe tolto. Fosse per me, toglierei pure il matrimonio: servono accordi e famiglie di fatto. Non so nemmeno perché mi sono sposata. Augusto era un collega simpatico e brillante, però io credo di essermi innamorata non di lui ma di sua madre che era la mamma che avrei voluto».
Come si lavora con le nuove famiglie?
«Ho seguito la separazione di una coppia di uomini omosessuali che si erano sposati all’estero. A parte le difficoltà giuridiche, è bastato un incontro per risolvere la questione. Con le donne, invece, è un disastro, soprattutto quando una delle due è madre biologica: si sentono proprietarie dei figli, anche se in realtà non lo sono».
Anche Laura Hoesch ha faticato a conciliare maternità e lavoro
Lei che madre è stata?
«Presente, anche se per conciliare maternità e lavoro mi sono tormentata. Se dovevo stare con i bambini fingevo di avere una riunione: non volevo dare l’immagine di quella che si occupava dei figli».
Che coscienza hanno le donne oggi dei loro diritti?
«Poca. Il diritto che rivendicano di più riguarda il denaro. Che certamente è importante, ma dovrebbe servire a renderle autonome, non dipendenti da un assegno mensile».