C’è una secolare catena di storie femminili dietro le attività di Asilo Mariuccia, storica fondazione milanese che offre accoglienza e sostegno a donne e minori in difficoltà. A partire dal manipolo di suffragette che la fondò, 120 anni fa, con l’intento di assicurare «assistenza, accoglienza e addestramento all’emancipazione a bambine e adolescenti vittime di gravi violenze e abbandoni».
L’Asilo Mariuccia fu fondata per l’emancipazione delle donne e delle madri

In tempi in cui il femminismo era una fede “antisociale”, alcune di loro scontarono quell’impegno sulla propria pelle. Come Ersilia Bronzini Majno, a cui morì una figlia, Mariuccia, per difterite, mentre lei si trovava a Roma per lavoro: tanto bastò perché la società benpensante del tempo la ritenesse responsabile. Il senso di colpa non le impedì di continuare a lottare per emancipare ogni madre e donna da quei pregiudizi che ancora oggi ci allontanano dall’autonomia lavorativa e da una piena autodeterminazione. «Perché ciò fosse chiaro, decisero di intitolare alla memoria di Mariuccia il rifugio che avevano fondato» spiega oggi Valentina Boccia, direttrice generale di FAM (asilomariuccia.com), chiamata dal 2024 a imprimere una precisa visione aziendale e strategica. «Ispirati dalla nostra Presidente, Emanuela Baio, che ci stimola a superare i paletti, ci siamo dati l’obiettivo di guardare al di là dell’attività ordinaria, di buttare il cuore oltre l’ostacolo».
Valentina Boccia dice che l’Asilo Mariuccia da sempre protegge madri e minori in difficoltà
Quanti lavorano per FAM?
«Circa 70, tra cui gli educatori distribuiti in 5 comunità sulle due aree di Milano e Porto Valtravaglia, in provincia di Varese: 3 nuclei mamma-bambino e 2 per minori stranieri non accompagnati o sottoposti a procedimenti penali. E poi 21 alloggi per l’autonomia e 5 appartamenti di housing sociale».
Fondazione Asilo Mariuccia non ha mai tradito le proprie origini.
«La Fondazione nasce dall’idea rivoluzionaria di questo gruppo di donne di inizio ’900, la loro “Unione Femminile” produrrà spunti interessanti, gettando le basi di ciò che è il servizio sanitario oggi: penso alla tutela della maternità e del lavoro femminile. In quest’ambiente nasce l’idea dell’asilo, un rifugio per accogliere le bambine attratte dalle chimere della Milano industriale, che allora sembrava offrire molte opportunità e spesso però mostrava la sua faccia peggiore».
Per Valentina Boccia ai giovani ospiti di FAM serve avere una seconda opportunità
Al centro del progetto, con le donne, ci sono sempre stati i minori.
«Lo sono diventati in modo più rilevante con la concessione da parte del Comune di Milano, nel 1963, della villa di Porto Valtravaglia. Oggi questa realtà ospita una trentina di ragazzi, soprattutto minori stranieri, ma anche giovanissimi messi alla prova in custodia cautelare. La maggior parte ha solo bisogno di una nuova opportunità, un progetto pensato a propria misura, una casa dove stare e qualcuno che dia loro un po’ di quel sostegno che gli è mancato».
E un trampolino per l’autonomia.
«Il progetto prevede una primissima accoglienza: non di rado arrivano ragazzi che hanno vissuto in strada. È previsto un periodo di “recupero della persona”, attraverso la riappropriazione del senso di cura di sé, dopodiché comincia un percorso diversificato. Ci sono ragazzi che devono imparare l’italiano, altri che lo parlano già, ma sono ancora in obbligo scolastico: ci preoccupiamo di iscriverli nei vari istituti. Poi c’è la trafila dei documenti».
I ragazzi ospiti restano nelle strutture dell’Asilo Mariuccia fino ai 18 anni

Fino a che età stanno con voi?
«A 18 anni per legge dovrebbero lasciare la comunità: quando cominciano a camminare sulle loro gambe, iniziano un percorso di avviamento al lavoro. Abbiamo un laboratorio di florovivaismo, che esercitano sia all’interno sia fuori, grazie a collaborazioni coi Comuni vicini. È un’esperienza fondamentale per imparare a esercitare diritti e doveri. Potrei raccontare cento storie di ragazzi che, diventati cittadini italiani, si rendono professionalmente autonomi, mettono su famiglia e spesso tornano da noi a chiedere manodopera».
Riuscite ad accogliere tutti?
«Purtroppo no, né dal carcere minorile, i cui invii sono una quota minoritaria per ragioni di equilibrio, né per quanto riguarda i minori stranieri: l’anno scorso abbiamo rifiutato una cinquantina di richieste. Abbiamo previsto un progetto di ampliamento del centro, per aumentarne la capienza e creare nuovi servizi che vadano incontro all’utenza che proviene dal territorio: ragazzi segnalati dai servizi sociali che non studiano e non lavorano. Dopo i colloqui, li introduciamo a percorsi di formazione tagliati sui loro bisogni: sono diversi rispetto a quelli dei ragazzi del centro, ma tutti condividono la voglia di riprendere in mano la propria vita».
Ora la FAM ha aperto anche un vero centro antiviolenza
Il cuore delle attività resta la lotta alla violenza di genere.
«È anche il motore della rivoluzione che abbiamo intrapreso nell’ultimo anno e mezzo. L’accoglienza delle mamme coi bambini era parte dei servizi da tempo. Il passo avanti è stato aprire un vero Centro antiviolenza, di cui le case rifugio sono la naturale estensione. Mentre le donne che accogliamo in comunità sono filtrate dai servizi sociali, il Cav, collegato al numero nazionale antiviolenza 1522, ci pone sul piano della prima richiesta di aiuto: abbiamo soccorso donne che chiamavano mentre il compagno maltrattante pestava sulla porta».
Questo cambia la prospettiva?
«C’è di mezzo un passaggio essenziale: l’accompagnamento di chi considera per la prima volta la possibilità di porre fine a una situazione di maltrattamento e ha bisogno di gradualità per maturare una decisione definitiva. Entrare in una casa rifugio e staccare con un maltrattante vuol dire spesso interrompere il legame con la propria comunità. Ci aiutano ex ospiti che chiamiamo community leader: provenendo dalle stesse comunità, riescono a infilarsi in quelle case, in quelle cucine. L’obiettivo è promuovere la consapevolezza. Smascherare abitudini che si perpetuano di generazione in generazione e non sono spesso riconosciute come maltrattanti. Il punto è far capire alle donne che quei comportamenti qui non sono consentiti. Che nessuno toglierà loro i figli se denunciano, un altro timore radicato. E che i Centri antiviolenza, pubblici e gratuiti, sono le strutture più idonee a proteggerle».
Molte donne che hano subito violenza possono “rinascere” anche grazie alla Fondazione Asilo Mariuccia

Quante riescono a riscrivere la propria vita?
«Abbiamo visto tante rifiorire, altre purtroppo ripresentarsi. Qualcuna abbiamo scelto di assumerla, per mantenere un legame, quella piuma di Dumbo che permette loro di non sentirsi sole».
Una mostra fotografica, Dopo il buio, testimonia le tappe di questo percorso.
«Racconta la vita della comunità, che si propone come un luogo sicuro dove sentirsi accolti. Le educatrici si prendono cura di tutti, festeggiano i compleanni, donano ai bambini strumenti per colmare quel gap. Intuiamo, soprattutto nelle figlie, la stessa voglia di riscatto, lo sforzo di abbracciare un’ottica diversa, in equilibrio tra libertà e tradizioni. Sono in gamba: sono certa che sapranno cambiare il proprio destino».