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Generazione Neet: chi sono i giovani inattivi

Sono più di 3 milioni i giovani italiani che non studiano e non lavorano. E troppo spesso gli adulti li etichettano come “bamboccioni” o “sdraiati”, colpevolizzandoli senza conoscerli. Qui cerchiamo di capire, grazie a una nuova ricerca, chi sono davvero. E come aiutarli

Neet: un fenomeno molto attuale

«Era come se fossi in una stanza buia. Continuavo a sbattere contro le pareti senza riuscire né ad accendere la luce né a trovare la via di uscita». È questa la prima cosa che mi racconta Joyce, 26 anni, nata nelle Filippine ma a Milano da quando ne aveva 4. E quel buio di cui parla si riferisce agli ultimi anni. «Dopo il liceo scientifico, ho deciso di iscrivermi a Ingegneria informatica al Politecnico. Per me era l’unica strada che mi avrebbe assicurato un lavoro» spiega.

In realtà, non è così: Joyce non riesce a dare gli esami, ne supera solo 3, e decide di fermarsi al primo anno. Ma a quel punto non sa più cosa fare ed è lì che cade nel buio. «Mi sentivo inutile, un fallimento. Non sapevo a chi rivolgermi, a chi chiedere aiuto. Avevo poca fiducia in me stessa: andavo online per cercare lavoro ma poi non mi candidavo mai, non mi sentivo all’altezza. Leggevo i requisiti richiesti e mi dicevo: “No, non fa per me”».

Così passano i mesi e Joyce, sola in quel limbo denso come la nebbia che ti toglie ogni punto di riferimento, perde le speranze, la motivazione, il sorriso.

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Che cosa vuol dire Neet

Joyce, purtroppo, non è l’unica. L’Italia è il Paese europeo con il più alto numero di Neet (acronimo dell’espressione inglese not in employment, education or training”). Sono più di 3 milioni i giovani dai 15 ai 34 anni che non lavorano né studiano né sono in formazione professionale, secondo i dati del report “Neet tra disuguaglianze e divari. Alla ricerca di nuove politiche pubbliche nel 2020 di ActionAid e Cgil”.

Al Sud c’è la percentuale più alta, il 39%, ma tutte le Regioni superano la media europea, che è intorno al 15%. Sono numeri spaventosi che – anche se nelle ultime rilevazioni Istat del 2021 che comprendono però solo la fascia di età tra i 15 e i 29 anni scendono a 2 milioni e 32.000 – dovrebbero far scattare un intervento immediato.

Chi sono i giovani Neet

Ma, prima di analizzare le cause di questo fenomeno, facciamo un passo indietro. E partiamo dai nostri pregiudizi. «Per alcuni i Neet sono la generazione dei “bamboccioni”, per altri quella dei “choosy”, i viziati. Per tutti è una scelta, una colpa. In questo modo, tuttavia, noi adulti ci autoassolviamo» spiega Giustina Orientale Caputo, professoressa di Sociologia del lavoro all’Università Federico II di Napoli, autrice della prefazione della ricerca insieme al demografo Alessandro Rosina. Ecco perché, prima di chiamarli “sdraiati”, occorre analizzare il contesto in cui vive questa generazione, che è molto più complesso di quanto pensiamo.

«La definizione Neet è nata nel 1982 in Gran Bretagna e si riferiva alle giovani adolescenti con gravidanze precoci. Poi si è allargata, in termini di categorie e di età. Contiene tante fasi, tante condizioni diverse, ragazzi ma anche giovani adulti che hanno mete, vissuti e sentiti diversissimi. Occorre quindi avere cautela nell’uso di questa etichetta che rappresenta solo in parte la realtà» avverte la professoressa. «Se la definizione Neet indica i giovani che non sono occupati, non studiano e non sono impegnati in altro genere di formazione, non ci dice nulla rispetto al loro comportamento sul mercato del lavoro. Infatti, Neet può essere sia un ragazzo che è attivamente alla ricerca di un’occupazione sia uno che ha smesso di cercare ed è quindi considerato inattivo».

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Cosa (non) fanno e perché

Sono propri questi giovani, in di cui fa parte anche Joyce, che andrebbero aiutati maggiormente. Anche perché – e qui torniamo ai numeri – i Neet italiani sono per la maggior parte inattivi: il 66% del totale, quindi 2 su 3, un impiego lo hanno cercato prima di arrendersi. E tra i Neet inattivi la maggioranza sono donne: 1,7 milioni, ovvero il 56% degli oltre 3 milioni.

Anche nel loro caso, non si tratta di pigrizia. «Le giovani donne risultano inattive perché spesso impegnate nella cura di un parente. L’etichetta non è corretta, perché il fatto che si occupino della famiglia vincola la loro disponibilità a essere attive anche nel mercato del lavoro» sottolinea Giustina Orientale Caputo. «Bisogna dare alle donne la possibilità di liberarsi dal peso della cura, creando strutture di welfare che nel nostro Paese mancano».

Non solo servizi per l’infanzia, tempo pieno scolastico, ma anche strutture per anziani, orari di lavoro o di formazione compatibili e livelli di remunerazione che non rendano “costoso”, a livello personale ed economico, il passaggio tra full time domestico e partecipazione al mercato del lavoro.

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Neet e psicologia: nella mente dei giovani inattivi

La permanenza nella condizione di Neet porta i ragazzi a entrare in una spirale negativa come quella descritta prima da Joyce: al non studio e al non lavoro tendono ad associarsi spesso anche altri “non” sul versante delle scelte di autonomia, partecipazione civica, socializzazione. Ed è un attimo sprofondare nel baratro in cui si è trovata Joyce. «Mi sentivo sola, ai margini. Non stavo con gli altri, non chiedevo aiuto perché mi vergognavo, perché non volevo raccontarmi, dire che ero Neet» ricorda, con gli occhi che si riempiono di lacrime. Ed è proprio così, perché accanto alle mancanze strutturali del nostro Paese c’è un altro problema: la grande solitudine dei nostri ragazzi.

«Un tempo c’era il sociale. C’era il collettivo, la politica, la comunità, insomma c’era una trasmissione costante delle informazioni. Adesso manca la rete, manca l’idea del “noi”, del fare squadra» spiega la professoressa Orientale Caputo. Quella rete che, come vedremo, ha salvato Joyce.

Le cause del fenomeno

Ma perché in Italia abbiamo un numero così alto di Neet? «La causa principale è costituita dalle fragilità del percorso di transizione scuola-lavoro, che assomiglia a un labirinto con elevato rischio di perdersi. E al poco dialogo che c’è tra formazione, aziende e centri per l’impiego» spiega Alessandro Rosina, professore di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano e coordinatore scientifico dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo.

E le soluzioni possibili

Le possibilità, però, per invertire la rotta ci sono. «Bisognerebbe potenziare i percorsi professionali post-diploma, i cosiddetti Its (Istituti tecnici superiori), che, a differenza di altri Stati europei come Germania, Francia e Paesi Scandinavi, qui da noi sono ancora poco conosciuti e spesso sottovalutati». A dirlo sono anche i numeri: in Germania gli iscritti alle “Fachhochschulen”, la formazione terziaria professionalizzante, sono più di 800.000, quasi un terzo di tutti gli studenti universitari. In Francia esistono gli “Iut”, Institutes Universitaires de Technologie, che offrono formazione tecnica superiore con docenti provenienti dal mondo del lavoro, e che sono frequentati da circa 200.000 ragazzi, contro i 19.000 dell’Italia.

«Dovremmo anche facilitare le modalità di accesso al mondo del lavoro, utilizzando di più i contratti di apprendistato, che permettono di essere assunti da un’azienda, iniziare a lavorare e continuare a studiare» osserva Rosina. E Joyce aggiunge: «Magari ci fosse stato un momento di orientamento al liceo. Sarebbe stato bellissimo!». Ma anche qui siamo piuttosto indietro: in pochissimi licei sono previsti incontri per scegliere il percorso lavorativo o universitario. «Per creare posti di lavoro per i ragazzi, le aziende dovrebbero investire di più in ricerca, sviluppo e innovazione, settori dove i giovani potrebbero trovare facilmente impiego e portare le loro conoscenze.

E infine sarebbe importantissimo sviluppare i centri per l’impiego, sia aumentandone la copertura sia assumendo operatori competenti, in grado di aiutare questi ragazzi. A cui dobbiamo insegnare a ritrovare fiducia per tornare a sentirsi parte attiva di un Paese che cresce e che li mette al centro dello sviluppo» conclude Rosina.

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Consigli per uscire dalla condizione di Neet

Sulla necessità di rovesciare la logica per cui, se va bene, si apre uno sportello e si aspetta che i Neet presentino la propria candidatura, concorda anche la professoressa Orientale Caputo. «Non si può pensare che i Neet si facciano avanti, soprattutto quelli inattivi, che sono isolati, chiusi in casa. Dobbiamo appoggiarci alle reti associative locali, usare i social, il passaparola, creare una modalità nuova di contatto con loro, scegliendo magari di far parlare i giovani stessi perché ai loro occhi sono più credibili».

Proprio come è successo a Joyce: grazie ai consigli dei suoi amici, agli operatori del servizio di counseling e sostegno psicologico del Politecnico di Milano (su questo punto non possiamo lamentarci: in quasi tutte le nostre università si trova questo supporto gratuito, che offre fino a 5 incontri con psicologi e psicoterapeuti esperti) e al progetto formativo di orientamento professionale Lavoro di squadra di ActionAid (vedi paragrafo in basso), qualche mese fa è riuscita a uscire dal buio. «Ho acceso la luce e ho trovato la mia strada: un corso di formazione per data analyst, perché sogno di aprire una start up informatica».

Una guida per i genitori

Cosa provano i giovani neet? Di storie come quella di Joyce, che abbiamo appena raccontato, Simona Rivolta, psicoterapeuta che da anni lavora con i giovani adulti, ne conosce parecchie. Perché è abituata a confrontarsi con i ragazzi e le loro difficoltà. Una in primis: la solitudine, proprio quella che Joyce ha provato da Neet. E il sentirsi soli spesso va di pari passo con un senso di disorientamento che aumenta dopo la fine del liceo. «Andare a scuola, stare in relazione con docenti e compagni di classe, tiene a bada lo spaesamento perché ci permette di coltivare un’identità, ci dà un vestito da indossare» continua la psicoterapeuta. «All’università non abbiamo più quell’abito. Dobbiamo costruircene uno nuovo. E non è facile».

Come aiutare i ragazzi Neet

Come possiamo aiutare noi adulti i giovani? «Noi genitori non conosciamo i nostri ragazzi. È come se volessimo portare avanti un progetto in cui l’altro non è il soggetto: c’è poca curiosità di vedere chi sono veramente e cosa può uscire da loro». È questo il primo consiglio che Simona Rivolta ci dà.

«Dobbiamo osservarli, ascoltarli, dar loro tempo. Anche perché, se il periodo in cui non lavorano e non studiano non supera i 2 anni e non è associato a un disagio psicologico grave, non è preoccupante. Lo so, un anno per un genitore sembra un’eternità, ma nell’arco di una vita non è poi così tanto!».

E, anche se sembra paradossale, per conoscere i nostri figli dobbiamo prendere un po’ le distanze, provare a vederne l’alterità, dare loro la possibilità di fare fatica, di costruirsi gradualmente una vita, di imparare a scegliere, non anticipando sempre i loro bisogni anche perché, così facendo, impediamo l’esplorazione interiore e la nascita del desiderio.

«Importante, poi, è non sostituirsi ai ragazzi nella ricerca del lavoro o del corso perfetto, ma tollerare un tempo vuoto: per farsi venire delle idee c’è bisogno di tempo “senza”. Questo non vuol dire disinteressarsi o accettare supinamente che non facciano niente, ma dare qualche suggerimento, come cercarsi nel frattempo un lavoretto o aiutare in casa» conclude l’esperta.

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Il progetto per rimettersi in gioco di Action Aid

Si chiama “Lavoro di squadra” il progetto gratuito di ActionAid rivolto a ragazze e ragazzi Neet tra i 16 e i 25 anni per coinvolgerli in un percorso di riattivazione e reinserimento formativo e lavorativo. È nato nel 2014, è stato realizzato a Torino, Alba, Milano, Bari e Reggio Calabria e ha coinvolto più di 700 ragazzi. L’ultimo, che si è concluso da poco, proponeva: sport di gruppo per l’acquisizione di competenze trasversali come la collaborazione; un corso di “netiquette” (etichetta digitale) per imparare a gestire i profili social; incontri di orientamento professionale con simulazioni di colloqui con uffici di risorse umane, mentoring aziendale (in questo caso con Zurich) per mettere a punto il proprio percorso lavorativo o formativo. La durata è di 3 mesi e nei prossimi mesi ne partirà un nuovo.

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