Sindrome da burnout: ne soffre il 67% degli insegnanti italiani

Atti di bullismo, precarietà, demotivazione. La sindrome del “burnout” lavorativo colpisce sempre più insegnanti, al punto che uno su 2 si sente fallito. Chi ne è afflitto fatica a parlarne e non può contare su una rete di aiuto. Così le conseguenze rischiano di essere molto gravi. Anche per gli allievi

Stressati dalle responsabilità, trascurati da chi dovrebbe motivarli, ostaggi di una precarietà lavorativa che accresce i fattori d’ansia e sempre più spesso, come dimostra la cronaca, bersaglio di atti di bullismo da parte degli studenti, quando non addirittura contestati e minacciati dai loro genitori. Sono gli insegnanti italiani le nuove vittime della sindrome da “burnout”, che indica l’esaurimento da lavoro. Una condizione che si presenta inizialmente come uno stato di logorio psicofisico con stanchezza cronica e poi determina importanti cali di concentrazione, demotivazione, esaurimento delle energie interiori, disinteresse e inefficienza nell’attività di tutti i giorni e nella gestione delle relazioni, fino alla depressione nei casi più estremi.

Una vera piaga sociale che chiama anche in causa i genitori

Sia perché molte situazioni di disagio sono alimentate, magari involontariamente, dal tentativo di alcuni di proteggere a tutti i costi i figli, sia perché sono proprio questi ultimi a scontare, in aula, le conseguenze del burnout in termini di crescita umana e culturale più difficoltosa, minore serenità, interpretazione errata dei valori. «Oggi insegnare non è facile» ammette Vittorio Lodolo D’Oria, medico esperto in malattie professionali dei docenti. «Si è perso il rispetto per il ruolo, messo in discussione in modo sempre più aggressivo da ragazzi e genitori. Rispetto al ’68 le due autorità educative contestate, scuola e famiglia, oggi fanno addirittura a pugni tra loro. Finchè non si risolverà questo conflitto le cose non miglioreranno».

Molti assumono ansiolitici e hanno paura di parlarne ai colleghi

È così che, malpagati, umiliati e malmenati, i professori sono costretti non di rado a intraprendere percorsi psicoterapeutici e ad assumere ansiolitici o antidepressivi. La maggior parte vive il disagio in solitudine, perché manca un sostegno psicologico diffuso e organizzato all’interno della scuola e perché si ha paura di parlarne ai colleghi o ai superiori in quanto il Dmp (Disagio mentale da professione, il termine con cui il Servizio sanitario nazionale indica il “burnout”) può anche diventare causa di inidoneità professionale. «Purtroppo quando manca la condivisione del problema le difficoltà aumentano e la guarigione si allontana» aggiunge Lodolo D’Oria. Fornire stime precise sul fenomeno è dunque più difficile del solito.

Ma un’indagine su 1.500 professori, condotta a partire dal 2015 dall’Onsbi (l’Osservatorio nazionale salute e benessere dell’insegnante dell’università Lumsa di Roma), ha rivelato casi di burnout medio-alto nel 67% degli intervistati, con presenza eccessiva e persistente di uno o più dei seguenti fattori: esaurimento emotivo, manifestazioni di cinismo verso l’istituzione scolastica, isolamento anche fuori dal contesto lavorativo, insonnia, abuso di psicofarmaci, sigarette, alcol, caffè. Il 53% dei docenti, inoltre, ritiene di aver fallito nella sua missione educativa.

«I soggetti più a rischio» spiega la professoressa di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione Caterina Fiorilli, direttrice dell’Onsbi «sono quelli con alle spalle 10-15 anni di lavoro, in genere più donne che uomini, con una maggiore concentrazione nelle scuole secondarie del Nord. Paradossalmente chi ama molto il suo lavoro si ammala di più, perché ha maggiori difficoltà a staccare la spina nella vita extrascolastica».

Sotto pressione aumentano gli errori e cala la capacità di valutazione

Questo stress prolungato ha risultati devastanti. In ambito lavorativo aumentano gli errori e cala la capacità di valutazione, crescono distacco e apatia nei confronti di studenti e colleghi. Per non parlare della salute: «Chi soffre di “burnout” è più esposto a patologie somatiche, oncologiche, cardiovascolari o psichiatriche, come ansia e depressione, e vede diminuire le sue capacità affettive e relazionali» aggiunge Fiorilli. Certo la generale condizione in cui versa la classe docente non aiuta: carenza di attrezzature, burocrazia, inadeguata formazione sulla gestione emotiva della professione, limitata possibilità di carriera, precarietà, retribuzioni insoddisfacenti.

Basta dire che, secondo quanto emege dagli ultimi dati Eurydice, in Germania un insegnante di scuola media superiore guadagna a inizio carriera 50.764 euro lordi e quando va in pensione 73.709. In Italia sono rispettivamente 24.849 e 38.901 euro. E a pagare il conto non sono solo gli insegnanti, ma tutti noi. Si pensi soltanto ai costi sanitari o alle molte assenze per malattia con conseguenti ritardi nella didattica, versante che ogni genitore ben conosce.

Come uscire dall’impasse? «Servirebbero percorsi formativi ad hoc» spiega Lodolo D’Oria «per informare gli insegnanti e con forme di prevenzione e orientamento alle cure». In Francia, per esempio, il docente ha uno psichiatra di riferimento e sostiene colloqui periodici obbligatori, come accade per le forze di polizia e altre categorie del pubblico impiego a contatto con gli utenti. Ma anche le famiglie possono fare molto. «Essere iperprotettivi con i propri ragazzi non giova né a loro né al morale di chi, con loro, trascorre molte ore al giorno» conclude Fiorilli.

Le regole da seguire

1. Per i prof, accettare i propri limiti e parlare con i colleghi del proprio disagio. Non si è mai soli: il burnout riguarda, a diversi livelli, tutti i docenti

2. Non puntare tutto sul lavoro, imparare a staccare la spina quando non si è a scuola, riposarsi, coltivare hobby e relazioni extrascolastiche

3. Per i genitori, evitare di fare gli avvocati dei propri figli, non cercare negli insegnanti solo colpe né sostituirsi al loro giudizio, ma scegliere il dialogo

Le storie

Sandra, 62 anni, di Milano «Sono stata presa da un’ansia da prestazione perenne, sia in aula sia con i colleghi» Sandra ha 62 anni e da 30 insegna in Lombardia, anche se è siciliana di origine. Negli ultimi 15 anni è di ruolo in un liceo di Milano, città nella quale, 23 anni fa, incontrò suo marito, con cui, pur cercandoli, non ha avuto bambini. «Per questo» racconta «ho sempre visto i miei ragazzi un po’ come figli, prendendo forse troppo a cuore i loro problemi o e le loro mancanze nei miei confronti». La morte prematura del marito, 7 anni fa, lascia un segno profondo nella sua vita. «Da quel momento» ricorda «mi sono buttata a capofitto nel lavoro, anche perché ero sola, con il resto della mia famiglia in Sicilia, ma a lungo a andare sono stata presa da una sorta di ansia da prestazione perenne: nell’eccesso di zelo, nel correggere i compiti a casa, nel dover dimostrare ai colleghi di essere sempre all’altezza. In pratica vivevo solo per la scuola». L’insoddisfazione apre la strada alla depressione, i permessi per malattia si moltiplicano, un malessere profondo rischia di allontanarla dalle aule per sempre. Oggi per fortuna, dopo due anni di psicoterapia, Sandra è tornata a sorridere. «Ciò che più di tutto mi ha salvata è prendere coscienza che non ero sola e non dovevo vergognarmi».

Daniela, 49 anni, di Roma «Logorata da un istituto di periferia, ho cambiato sede. Ma ho avuto un crollo emotivo» Il suo disagio comincia con una richiesta di trasferimento per allontanarsi da una scuola della periferia di Roma. Troppi ragazzi problematici che l’avevano negli anni logorata. Ma Daniela, 49 anni, insegnante di italiano, nel nuovo istituto in centro trova colleghi scostanti, talvolta ostili nei confronti dell’ultima arrivata. Al posto di ragazzi disagiati ed emarginati si ritrova in classe studenti «viziati, arroganti, polemici». Ben presto si rende conto di aver fatto la scelta sbagliata. «Avendo perso tutti i punti di riferimento della mia vecchia scuola» racconta «ho avuto un crollo emotivo: ansia e stanchezza fisica mi frenano. Ho serie difficoltà nel correggere i compiti e gestire le lezioni. Per non parlare dei genitori, quasi sempre sulle difensive e prevaricatori. La notte non dormo bene e mi ritrovo a piangere». Da qualche mese Daniela ha cominciato un cammino psicoterapeutico. «Spero mi aiuti a stare di nuovo bene. Ma ciò che serve davvero è più comprensione e collaborazione con gli insegnanti, a partire dai genitori. Il nostro è un lavoro importante e se il confronto avviene senza pregiudizi, ci guadagniamo tutti: i ragazzi in primis».

Insegnanti e genitori: come recuperare la fiducia?

VEDI ANCHE

Insegnanti e genitori: come recuperare la fiducia?

Scuola, tra violenza e bullismo: cosa possono fare i docenti

VEDI ANCHE

Scuola, tra violenza e bullismo: cosa possono fare i docenti

Riproduzione riservata