Gerry Scotti e Michelle Hunziker durante una puntata di Striscia la notizia
Gerry Scotti e Michelle Hunziker durante una puntata di Striscia la notizia

No, le caricature razziste non fanno ridere

Dalla blackface di Tale e quale show all’imitazione degli occhi e dell’accento cinese di Striscia la notizia: perché la tv italiana continua a usare battute e stereotipi problematici?

Ne avevamo parlato solo qualche mese fa dopo lo sfoggio, ripetuto, di blackface durante Tale e quale show su Rai1, ma anche quando Fausto Leali, durante il Grande Fratello Vip, aveva usato un epiteto tutt’altro che educato per apostrofare Enock Barwuah, il fratello di Mario Balotelli. Parole come “neg**” e pratiche come la blackface (ovvero quando persone con la pelle bianca si truccano la faccia di nero per imitare persone nere, esagerandone i tratti fisici) sono portatrici di messaggi sbagliati e, soprattutto, superati, ma non passa giorno che la tv italiana non ci ricordi quanto il nostro Paese sia indietro su questi temi. L’ultimo episodio riguarda Striscia la notizia: nel presentare un servizio sulla postazione Rai a Pechino, i conduttori Gerry Scotti e Michelle Hunziker hanno usato un non meglio specificato accento “cinese”, ovvero sostituito le “r” con le “l”, e hanno fatto il gesto di tirarsi gli occhi per imitare i tratti asiatici.

Una battuta, una gag, un intermezzo comico che avrebbe dovuto divertire gli spettatori, e che sicuramente avrà fatto ridere chi apprezza le imitazioni infantili, ma che in realtà dimostra l’arretratezza di certa satira italiana. La clip è finita su Diet Prada, popolare account con più di 2 milioni di follower su Instagram, nato per denunciare le appropriazioni culturali nella moda e diventato una sorta di piattaforma contro le discriminazioni razziali nei media, pur non senza contraddizioni. L’effetto boomerang sui social è stato immediato, tant’è che Michelle Hunziker si è anche scusata nelle sue Stories per «aver offeso la sensibilità della comunità cinese». Tanto rumore per nulla? Non proprio.

Sembra incredibile, infatti, che dei presentatori che vanno in onda in prima serata su una rete nazionale non si preoccupino di considerare il momento storico e le ricadute che certe battute possono avere nel dibattito pubblico. E non si tratta solo di riprodurre stereotipi triti, ma anche di sdoganare un linguaggio e degli atteggiamenti offensivi, quando non pericolosi, in una società che oggi è a tutti gli effetti multiculturale. Potremmo citare, ad esempio, l’aumento dei crimini contro le persone di origine asiatica durante la pandemia, fomentato dalla retorica razzista di molti capi di stato, Donald Trump in primis, che hanno ribattezzato il Coronavirus “China virus”, contribuendo così a rendere vulnerabili milioni persone solo per via dei loro tratti somatici.

Da marzo 2020 a febbraio 2021, e non è un caso, si sono registrati negli Stati Uniti almeno 3.795 episodi di razzismo contro gli asiatici-americani. Il New York Times ha provato a monitorare il fenomeno, che non è certo nuovo ma che durante la pandemia si è aggravato: si va dalle aggressioni fisiche e verbali ad anziani e donne, alcune delle quali culminate con la morte delle vittime, fino alla strage di Atlanta dello scorso 16 marzo, quando un uomo è entrato in tre centri per massaggi e ha sparato, uccidendole, a otto persone, sei delle quali erano donne di origine asiatica. E sebbene gli investigatori siano stati reticenti nel citare la motivazione razziale, nel Paese sono scoppiate le proteste, riunite sotto l’hashtag #StopAsianHate (ovvero “fermiamo l’odio contro gli asiatici”).

E l’obiezione “Qui siamo in Italia, non in America” vale fino a un certo punto: se le dimensioni del fenomeno non sono paragonabili tra i due Paesi per via della differenza nella densità e composizione della popolazione, anche da noi gli italiani di origine cinese sono stati presi di mira all’inizio della pandemia, e molti politici, tra cui il governatore veneto Luca Zaia, si sono lanciati in affermazioni apertamente razziste del tipo “Ci sono popoli che mangiano i topi”, per cui poi hanno dovuto chiedere scusa. Senza voler forzare il legame tra le battute infelici e il dilagare del razzismo, è impossibile non riconoscere il ruolo che svolge la rappresentazione nei media: perché rifarsi a stereotipi che non fanno più ridere nessuno da almeno trent’anni?

Neanche importare passivamente il dibattito americano ha molto senso: bisogna creare un dibattito che sia nostro e che parta dalla realtà italiana, e che tenga conto degli italiani che fanno parte di minoranze etniche. La scorsa settimana un gruppo di giovani attivisti ha organizzato delle proteste simboliche di fronte alle sedi della Rai utilizzando l’hashtag #CambieRAI per sensibilizzare sulla necessità di una rappresentazione più inclusiva che non utilizzasse stereotipi dannosi e datati. A questo proposito, è utile recuperare due libri usciti recentemente: L’unica persona nera nella stanza (66thand2nd) di Nadeesha Uyangoda, giornalista italiana di origini srilankesi che affronta le lacune tutte italiane sulle questioni razziali a partire dal linguaggio, e Semi di tè (People) di Lala Hu, milanese di origine cinese, docente di Marketing all’Università Cattolica, che ha raccontato come la comunità sino-italiana ha affrontato l’emergenza causata dal Covid-19. Due letture utili per capire meglio cos’è l’Italia di oggi, qualcosa di molto lontano da certi programmi tv.

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