Lavoro: le aziende in crisi in Italia

Non è solo l’effetto coronavirus. Aziende come l’Alitalia e l’ex Ilva sono da anni al centro di una grave crisi industriale. Per raccontarla abbiamo intervistato 4 lavoratori. La loro è la situazione di centinaia di migliaia di dipendenti in cassa integrazione, con stipendi tagliati, sull'orlo del licenziamento

C’è l’ex Ilva, con ArcelorMittal che da mesi minaccia esuberi in un interminabile braccio di ferro con i lavoratori. Ci sono eterne vicende come quelle di Whirlpool e Alitalia o new entry come la chiusura dello stabilimento di Roberto Cavalli a Sesto Fiorentino. Da Nord a Sud si contano 135.000 lavoratrici e lavoratori in bilico, per un totale 150 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. E la causa non è solo la crisi post coronavirus. Se è vero che, stando all’allarme lanciato dai sindacati, la pandemia rischia di far perdere 300.000 posti di lavoro, è altrettanto noto che molte vertenze sono stati aperte per motivi che prescindono dall’emergenza sanitaria. Dietro i numeri ci sono persone e famiglie che vivono da anni nell’incertezza e che, pur continuando a confidare nel futuro, ogni giorno si confrontano con una quotidianità difficile.

Alitalia, una crisi che dura da più di 10 anni 

Sara Di Marco, 42 anni, addetta all’accoglienza passeggeri di Alitalia racconta: «Ho avuto il primo contratto nel 1999, da allora lavoro nell’incertezza».
Per Sara Di Marco, 42enne di Roma, Alitalia è più della compagnia in cui è impiegata da 21 anni: è motivo di orgoglio, nonché la sua unica esperienza lavorativa. «Dal 1999 sono un’addetta all’accoglienza passeggeri. Ci occupiamo di tutto ciò che riguarda l’assistenza a terra, dal check in ai bagagli». Ovvero, i settori messi più a rischio dal nuovo piano industriale. Niente di nuovo purtroppo per Sara, che con questa incertezza si confronta sin dal suo ingresso in Alitalia: «Ci sono voluti 10 anni di precariato prima di vedere il contratto a tempo indeterminato e, anche quando ho raggiunto quel traguardo, non sono riuscita a gustarmelo». Era il 2008. L’azienda era già entrata in crisi tanto da chiedere 7.000 licenziamenti. «Non è stato piacevole firmare il contratto mentre accanto a te vedevi persone che andavano via con gli scatoloni». Sara, però, crede nella forza della compagnia di bandiera e diventa mamma di 2 bambini. Nel 2018 la travolge il terzo fallimento di Alitalia e lei, come tanti colleghi, finisce in cassa integrazione. Condizione immutata fino a oggi, mentre la crisi del trasporto aereo stringe il governo fra l’ipotesi di nazionalizzazione e la ricerca di un partner industriale: ma nessuno dei 2 scenari risparmierà i dipendenti, che potrebbero finire addirittura per dimezzarsi. Già adesso il bilancio familiare di molti di loro traballa: «Questo mese la cassa ha coperto 7-8 giorni» continua Sara. «E a ottobre potrebbe arrivare a 12: su 22 complessivi di lavoro, parliamo del 50% dello stipendio». All’amarezza della lavoratrice che vede infranto il suo sogno di ragazza si affianca quella di madre: «Quando ci sono macro-problemi, la dirigenza dimentica le necessità più “piccole”, come quelle relative ai turni, che per chi ha una famiglia sono fondamentali. Io ho potuto continuare a lavorare solo grazie alla rete delle altre mamme che mi hanno dato una mano. Ma quando questo aiuto non c’è cosa può fare una lavoratrice di un’azienda in crisi?».

Whirlpool, sull’orlo della chiusura

Carmen Nappo, 42 anni, operaia di Whirlpool racconta: «Ho conosciuto mio marito qui in fabbrica: ora rischiamo entrambi il licenziamento».
Carmen Nappo quasi si commuove pensando a cosa rappresenti per lei l’azienda di elettrodomestici: i suoi genitori erano entrambi operai nello stabilimento di Napoli, lei viene assunta nel 2001 quando il papà va in pensione. «E lì, proprio come era successo ai miei, ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito. La Whirlpool? È una famiglia». Una vita intera al servizio dell’azienda. Che, da un giorno all’altro, comunica il desiderio di delocalizzare e chiudere lo stabilimento di Napoli perché improduttivo. Troppo alti i costi, troppo fragile il mercato interno: lo stesso ritornello ascoltato in molte altre vertenze. «Noi però ci siamo sentiti presi in giro» mormora Carmen. «Pochi mesi prima avevamo ricevuto encomi ufficiali per la nostra competenza». Nel frattempo 70 dipendenti su 420 hanno accettato una buonuscita, ma gli altri restano appesi a un filo. A oggi non sono in Cig, ma nonostante i tentativi di mediazione del governo l’azienda non è intenzionata a fare marcia indietro e punta a chiudere lo stabilimento di Napoli il 31 ottobre. «Lavoriamo sapendo che probabilmente tra poco più di un mese saremo casa. È insostenibile e diventa difficile andare avanti conciliando l’incertezza con la necessità di dare certezze alla tua famiglia». Carmen ha 2 figli, di 11 e 6 anni: «Anche quando sono nati ho sempre pensato all’azienda. A soli 3 mesi dal parto ero già in catena di montaggio. Oggi mi chiedo a cosa sia servito». La famiglia, però, è ancora più unita di prima, nonostante ci sia il rischio di perdere sia lo stipendio di mamma sia quello di papà: «Ho provato a spiegare ai miei figli cosa potrebbe accadere. Ci hanno detto che non dobbiamo mollare. E noi non molleremo».

Fca di Mirafiori, da 13 anni in cassa integrazione

Nina Leone, 57 anni, operaia di Fca racconta: «Sono in cassa integrazione ininterrotta da 13 anni, spero solo di arrivare alla pensione».
Chi la conosce sa bene che Nina Leone, 57 anni, ha un carattere forte. Probabilmente è anche per questo che ha resistito oltre 30 anni nella catena di montaggio dello storico stabilimento – prima Fiat, poi Fca – di Mirafiori (To). «Avevo 18 anni quando da Minervino, in provincia di Bari, sono arrivata a Torino. Dopo vari lavori precari, finalmente un posto in Fiat. Allora era una sorta di paradiso». Un paradiso che col passare degli anni si è sgretolato. «Dopo lunghi periodi in cui si sono alternati contratti regolari e ammortizzatori sociali, è da 13 anni che siamo ininterrottamente in cassa integrazione. Viviamo in una situazione che ti lascia sempre sul chi va là» spiega Nina. «Alla mia età, l’unica aspirazione è arrivare alla pensione, anche perché in questa condizione non riesci a metterti nulla da parte. E anche quando riesci, sai che non puoi spendere perché molto probabilmente arriveranno momenti ancora più bui». La precarietà lavorativa si trasforma in precarietà esistenziale. E l’unica via di fuga è dedicarsi agli altri: «Non sono andata via da Mirafiori perché credo nel valore del lavoro: qui posso mettere al servizio dei più giovani la mia esperienza». La voce di Nina si incrina per un attimo. Poi riprende: «Alla mia età, parliamoci chiaro, chi potrebbe darmi un nuovo posto stabile? L’unico scenario possibile sarebbe, nuovamente e fino alla fine, il precariato».

ArcelorMittal, tra danni ambientali e crisi dell’acciaio

Vincenzo Vestita, 43 anni, opeario di ArcelorMittal: «Da mesi prendo la metà dello stipendio. Ho rinunciato, per ora, ad avere un figlio»
Vincenzo Vestita ha 43 anni. È nato a Grottaglie, a pochi chilometri da Taranto e la sua vita, come quella di tanti in Puglia, è legata a doppio filo all’ex Ilva, oggi Arcelor Mittal, sin da quando era bambino. «Già mio padre era operaio all’acciaieria, ma io non avevo mai pensato di andare a lavorare lì. Nel 2001 studiavo psicologia a Firenze. Un giorno proprio mio padre mi chiama e mi dice che stavano facendo nuove assunzioni in azienda: decisi di fare domanda». Passano poche settimane e Vincenzo diventa un dipendente dell’Ilva, prima con un contratto di formazione, poi a tempo indeterminato. «Era un traguardo importante: mai avrei pensato che l’azienda sarebbe entrata in crisi». E invece sono passati pochi anni da quella firma quando Vincenzo, nel 2008, conosce per la prima volta la cassa integrazione: la crisi economica, scoppiata in Usa, arriva anche nel Mezzogiorno. «Da allora è stato un continuo dramma. Col passaggio dai Riva ad Arcelor nel 2019 pensavamo che ci sarebbero stati maggiori investimenti e più rispetto dei lavoratori». Invece è stato come finire in un brutto gioco dell’oca: «Ci hanno detto che, a causa del calo del mercato dell’acciaio, erano necessari altri esuberi». A rendere la situazione ancora più drammatica sono state le vicende giudiziarie dello stabilimento, responsabile di danni ambientali, e la richiesta di immunità in caso di subentro da parte dei nuovi proprietari, che dopo il no del governo valutano di andarsene. Infine è arrivato il Covid: «L’azienda ha messo tutto il personale in cassa integrazione. Parliamo di 8.700 persone». Da mesi Vincenzo lavora 88 ore su 173 complessive. La metà del totale, per poco più di metà della busta paga originaria. «Il problema è la prospettiva: come si può pensare di lavorare altri 20 anni così?». Dubbi che condivide con la moglie: «Ho pensato di cambiare lavoro, ma significa andar via da Taranto» dice Vincenzo, che per ora rinuncia anche al desiderio di avere un figlio.

I numeri della crisi industriale in Italia

135.000 I lavoratori dell’industria a rischio. I settori più penalizzati: auto, edilizia e manifattura.

418.000 I contratti a tempo determinato non rinnovati nei primi 6 mesi del 2020 (più della metà nella fascia 25-34 anni).

+10% L’aumento delle ore di cassa integrazione nei primi 7 mesi del 2020.

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