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Cos’è il trapianto di faccia

Non si tratta di dare a una persona la faccia di un altro ma di un delicato innesto di tessuti. In Italia il primo è stato eseguito su una donna di 49 anni ma purtroppo non è andato a buon fine. Ecco in cosa consiste

Un intervento unico in Italia, mai tentato prima e dall’esito incerto: è il primo trapianto di faccia, eseguito all’Ospedale Sant’Andrea di Roma, da un’équipe di esperti che si era preparata per tre anni, anche con formazione all’estero, dove alcuni casi di operazioni del genere si sono già registrati. La donna di 49 anni che vi si è sottoposta è in coma farmacologico indotto, sottoposta a terapia immunosoppressiva antirigetto. Un rigetto che, dopo l’iniziale entusiasmo, si è invece presentato, tanto che i medici non escludono un autotrapianto “in attesa di una nuova ricostruzione – spiegano – con un nuovo donatore”. I tessuti impiantati erano infatti di una 21enne, rimasta vittima di un incidente stradale nel Lazio.

Ma in cosa consiste il trapianto di faccia? In quali casi può essere effettuato e che rischi comporta? Ma, soprattutto, come si vive dopo un’operazione così importante e dopo un trapianto in genere? Rappresenta l’inizio di una nuova vita, come nei casi di trapianto di cuore?

Chi è la paziente

La donna che ha ricevuto gli organi è una donna affetta da neurofibromatosi, una grave malattia che riguarda il livello cutaneo, oculare e neurologico, con effetti deturpanti. L’intervento che nelle intenzioni vuole ridonarle un “nuovo viso” si chiama tecnicamente “trapianto multitessuto”: consiste nell’innesto di pelle, fasce muscolari e cartilagine. Nulla a che vedere, dunque, con una somiglianza estetica.

A spiegare la differenza era stato nel 2015 il direttore generale del Centro Nazionale Trapianti, Alessandro Nanni Costa, dopo un caso analogo a quello di Roma, avvenuto in Francia: “Sono procedure eseguite sui soggetti che sul viso presentano delle mostruosità, cioè lesioni talmente orribili che è impossibile per loro guardarsi allo specchio. E che non possono essere riparate in nessun modo se non con un trapianto di faccia” aveva spiegato all’Agi, chiarendo: “In realtà, il trapianto di faccia coinvolge grosso modo una striscia circolare: può coprire la fronte, le guance fino ad arrivare sopra la bocca. In pratica, la faccia del ricevente non viene sostituita da quella del donatore“.

Anche da punto di vista tecnico esistono delle differenze: l’obiettivo è restituire un volto a chi ha subito incidenti o mutilazioni (da morso di animale, scariche elettriche o malattie) che li hanno deturpati. Si interviene sulla “parte ossea e muscolare per dare al paziente l’opportunità di avere una vita sociale e anche di ricominciare ad accettare il proprio aspetto”, come spiegato dall’esperto.

Si tratta di un’operazione estremamente complessa, che conta solo una cinquantina di precedenti in tutto il mondo. Di questi, una decina è stato eseguito in Europa e la maggior parte in Francia.

I precedenti

Il primo caso in Europa di trapianto di faccia è avvenuto proprio in Francia e sempre su una donna. Era il 2005 e la paziente, Isabelle Dinoire, all’epoca aveva 38 anni. L’operazione era stata effettuata ad Amiens. Nel 2006 ne è stato eseguito un altro in Cina, dove è stato possibile donare nuovamente un naso, una bocca, una guancia e un sopracciglio a un ragazzo di 30 anni, rimasto sfigurato  dopo l’attacco da parte di un orso bruno nel sud della Cina. Li Guoxing è però poi deceduto due anni dopo: secondo il suo chirurgo, Guo Shuzong, il giovane aveva deciso di interrompere le cure farmacologiche antirigetto, per ricorrere ad altre a base di erbe.

Il terzo intervento del genere è stato condotto ancora in Francia, su una paziente oncologica francese nel 2007, mentre l’anno dopo anche la Cleveland Clinic, negli Usa, annunciò di aver eseguito con successo il primo trapianto di faccia quasi totale su una donna.

I rischi

Come dopo ogni tipo di trapianto, l’eventualità di rigetto fisico rappresenta uno dei maggiori rischi. Nel caso del trapianto di faccia è proprio quanto accaduto a Jerome Hamon, che nel 2010 si sottopose a un primo trapianto, all’età di 43 anni. Dopo il rigetto, vennero effettuati altri due interventi, l’ultimo nel 2015 da parte dell’equipe dell’Ospedale europeo Georges-Pompidou di Parigi, guidata dal professor Laurent Lantieri e di cui faceva parte anche l’italiano Francesco Wirz. Anche Hamon era affetto da neurofibromatosi (o malattia di von Recklinghausen), che può portare allo sviluppo di tumori benigni all’interno dei tessuti.

Al terzo tentativo l’operazione andò in porto con esito favorevole. Ma anche le implicazioni psicologiche, nel caso di trapianti in genere e in particolare al viso, possono avere effetti importanti.

Come si vive “dopo”?

Nel 2013 fece scalpore la notizia che Walter Visigalli, il primo uomo a cui venne trapiantata una mano in Italia nel 2000, dopo oltre 10 anni chiese e ottenne di farsi amputare l’arto. A dare la notizia fu lo stesso chirurgo Marco Lanzetta che all’epoca aveva eseguito l’operazione all’ospedale San Gerardo di Monza e che due anni prima aveva fatto parte dell’equipe francese che aveva effettuato il primo intervento del genere al mondo. Anche in quel caso il paziente che aveva ricevuto la mano, il neozelandese Clint Hallam, dopo un anno aveva deciso di interrompere la terapia antirigetto, spiegando di sentire troppo dolore e di non aver accettato psicologicamente la nuova mano innestata, al posto di quella amputata a causa di un incidente stradale.   

Visigalli, dopo un percorso piuttosto regolare, aveva iniziato a convivere con ulcere dolorose, dovute alle reazioni di rigetto. Rischiava cancrena e setticemia, quindi aveva deciso per l’amputazione.

Nel caso francese di Hamon, invece, l’esperienza è stata positiva soprattutto dal punto di vista psicologico. Come scritto nel libro T’as vou le monsieur? ( Flammarion) “Mi abituai alla nuova faccia all’istante”. “Non devo più sopportare gli sguardi strani – raccontò alla stampa dopo il primo intervento – e la gente mi ascolta”. Anche nel suo caso era intervenuto il rigetto, prima di un nuovo trapianto, non appena trovato un donatore.

Il parere dell’esperta

“Gli studi dimostrano che ci può essere un processo di non accettazione da un punto di vista psicologico quando si parla di un arto trapiantato, perché il soggetto lo considera come un corpo estraneo. Ma per quelli di viso, numericamente limitati, non si è ancora verificato il rifiuto” spiega a Donna Moderna Elisa Zugno, psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale. “Inoltre le persone che affrontano un trapianto facciale arrivano solitamente da un percorso difficile, dopo che per anni hanno convissuto con un viso deturpato. L’intervento, quindi, è visto come una sorta di rinascita dell’immagine di sé”.

L’aiuto che non deve mancare

“È però importante che siano valutate con estrema attenzione le possibili conseguenze psicologiche ancora prima di procedere con il trapianto. Le linee guida ci dicono che il supporto psicologico deve essere fornito in anticipo per attivare le risorse utili ad affrontare il cambiamento e ridurre il rifiuto. Si tratta di un percorso che inizia nella fase pre-operatoria e termina in quella post-operatoria durante la riabilitazione e con verifiche periodiche” spiega la psicoterapeuta. “Bisogna infatti aiutare il paziente ad avere aspettative realistiche rispetto al cambiamento che vivrà”.

“Occorre, dunque, un’équipe multidisciplinare, composta da medici e chirurghi ai quali si affiancano psicologo, psicoterapeuta e psichiatra, perché è necessaria una valutazione dell’idoneità psicologica del ricevente prima dell’intervento, per individuare eventuali problematiche a livello di ansia o umore, e per valutare risorse e capacità di far fronte al cambiamento. Questa valutazione deve essere estesa anche alla famiglia per la disponibilità al supporto in chi riceverà il trapianto, oltre che nei familiari” dice Zugno.

L’importanza della famiglia

“Se non c’è un adeguato supporto familiare e sociale, gli esiti potrebbero essere negativi. Nella fase post-operatoria, dunque, sarà valutato anche se lo stato psicologico nella fase di riabilitazione è consono alla situazione e se la qualità di vita è buona. In caso di problematiche, il paziente potrà essere supportato e indirizzato in un percorso di psicoterapia” conclude la psicologa Elisa Zugno.

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