Assolto il figlio che uccise la mamma gravemente malata

Un giudice ha assolto un uomo per aver ucciso la madre, gravemente malata. Per il giudice è stato un atto d'amore, dovuto alle profonde sofferenze della donna, diverso dal caso di Dj Fabo, che si autosomministrò il farmaco letale. La legge sul suicidio assistito è ferma ma si sta lavorando a un protocollo unico per renderlo attuabile

La storia arriva dal Piemonte, dove Gianni Ghiotti, 53 anni, operaio di Piovà Massaia (in provincia di Asti) nel 2017 aveva soffocato nel sonno la madre 92enne gravemente malata, somministrandole un calmante e poi premendo un cuscino sul suo viso. Dopo tre anni aveva confessato ed era stato accusato di omicidio. Ora, però, è stato assolto.

«L’amore di un figlio verso la madre»

Come spiega l’avvocato di Ghiotti, Mario Dapino «Si è trattato di un gesto d’amore di un figlio verso la madre. Il mio cliente non ha pensato a sé, a quello a cui poteva andare incontro, ad una vita spezzata. L’ha aiutata dolcemente a morire. E il giudice Belli ha accolto questa tesi». Il pubblico ministero, infatti, aveva chiesto per l’uomo una pena di 7 anni e mezzo, ma il giudice ha deciso per l’assoluzione. A influire sono state le parole dell’imputato che aveva spiegato il gesto ricordando come la madre lo avesse più volte supplicato: «Non voglio finire in polvere come mia sorella, voglio morire prima». La zia, colpita da una grave forma di osteoporosi, si era spenta dopo lunghe sofferenze, per questo Ghiotti ha deciso il gesto estremo.

Perché è stato assolto

Una sentenza – l’assoluzione – unica nel suo genere. Spiega l’avvocato Gianni Baldini, professore associato di diritto privato e docente di biodiritto presso l’Università di Firenze e Siena, e componente del collegio legale dell’Associazione Luca Coscioni: «Naturalmente bisognerà attendere le motivazioni di una sentenza che, per quanto appare, è la prima nel suo genere. Non ha precedenti perché il reato si è di fatto consumato, vi è stato l’omicidio di una persona. Dai documenti a disposizione finora, non è chiaro se la donna fosse o meno consenziente, cioè se avesse chiesto lei in modo esplicito che le fosse preparato un cocktail di farmaci o sonniferi. Per questo il caso è diverso da quello del Dj Fabo, che era invece suicidio assistito perché il soggetto si è autosomministrato il farmaco letale. Piuttosto potrebbe sembrare una forma di eutanasia o, più precisamente, di omicidio del consenziente, se fosse riconosciuto che la madre aveva chiesto comunque di morire e che l’atto materiale è stato compiuto dal figlio».

Ma perché Ghiotti è stato assolto, allora? «L’unica motivazione che vedo – ma non da poco – è il rispetto della dignità della persona, che è un principio cardine della Costituzione europea, prevista all’articolo 1 e che permea tutte le carte fondamentali sulle quali si basa la convivenza civile. Da questo punto vi vista, invece, ci sono attinenze con i casi Cappato (assolto per aver accompagnato Dj Fabo in una clinica in Svizzera, NdR) e ad altri che seguiamo come Associazione Luca Coscioni» aggiunge Baldini.

Il diritto alla dignità

«Come chiarito anche dalla Corte costituzionale, con la sentenza Cappato del 2019 si evidenzia come la dignità sia un diritto di cui godere dall’inizio alla fine, da quando si nasce a quando “ci si congeda dalla vita”, per usare le parole dei giudici. La signora del caso piemontese non aveva più dignità: aveva una patologia irreversibile e refrattaria a ogni cura, e viveva sofferenze insopportabili, proprio come nel caso di Dj Fabo – chiarisce l’avvocato ed esperto di bioetica – Quindi, sicuramente, il giudice avrà tenuto conto di questo aspetto ritenendo che il figlio non avesse altra possibilità di porre fine alle sofferenze della madre, se non in questo modo: il suo, quindi, non è stato ritenuto un atto criminale, bensì un atto d’amore».

«Per quanto riguarda il processo, il fatto che l’uomo abbia confessato confermerebbe che non reggeva più nella propria coscienza il peso del gesto, dunque che non vi era intento criminale o criminogeno: insomma, che abbia voluto solo liberare il corpo della madre da quel dolore, in una condizione nella quale le leggi non davano alternative».

Come funziona in questi casi

In casi analoghi, di grande sofferenza e senza possibilità di cure risolutive, generalmente le alternative non sono molte: «Una persona in condizioni analoghe a quelle della donna ha diritto alle cure palliative, che l’ospedale ha il dovere di erogare. L’eventuale mancata somministrazione può essere fonte di risarcimento del danno – precisa l’avvocato e professore – Ma nel caso ci sia una sofferenza per malattia refrattaria, che non risponde alle cure palliative, il soggetto può chiedere di accedere a suicidio assistito». Purtroppo manca ancora una legge in materia. A dicembre c’è stato anche il primo “sì” al Ddl, da parte delle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera, che dovrebbe dar corso e seguire le indicazioni della sentenza della Corte costituzionale del novembre 2019 proprio sul caso Cappato-Dj Fabo.

I requisiti per il suicidio assistito

«Ad oggi resta valida quella sentenza che prevede che si possa avere accesso al suicidio assistito laddove ci siano 4 requisiti: che il soggetto sia in condizione di malattia terminale irreversibile; che abbia sofferenze psico-fisiche intollerabili; che riceva sostegno vitale (essere nutrito meccanicamente o aiutato nella respirazione, ecc.); che sia pienamente capace di intendere e volere. Solo allora può chiedere alla struttura pubblica sanitaria (Asl) di avviare il protocollo di suicidio medicalmente assistito. Il problema è che in due anni dalla sentenza, non è ancora mai accaduto che sia stato praticato, per problemi burocratici: manca, infatti, un protocollo e, anche nel caso di Mario (che vi abbiamo raccontato qui), un paziente tetraplegico di 43 anni, gli enti si stanno rimbalzando le responsabilità. Dopo essersi visto riconoscere un primo via libera dal Comitato etico dell’Azienda sanitaria regionale, non è ancora stato deciso chi dovrà prescrivere il farmaco letale o in che misura» spiega l’esperto.

Il progetto all’avanguardia della Toscana

Per ovviare a questi ostacoli, in Toscana si sta mettendo a punto un protocollo unico per il suicidio assistito: «La commissione di bioetica regionale sta studiando un protocollo che sia applicato poi a tutti i casi, senza doversi ogni volta rivolgere a un giudice che debba definirlo caso per caso. Dovrebbe valere come linea guida per tutti, per rendere l’iter più semplice e automatico, previa verifica dei requisiti per l’accesso al suicidio assistito. Non solo: si sta anche definendo la possibilità di farne richiesta nell’ambito del testamento biologico, previsto dalla legge 2019/2017».

Questo documento permetterebbe anche di regolamentare l’obiezione di coscienza: «Sarebbero stabiliti dei parametri chiari su un tema che, di fatto, ha bloccato in molti casi l’applicazione della legge 194. Si tratta di norme biogiuridiche che vanno a garanzia dei diritti di tutti: dei medici di fare obiezione di coscienza, ma anche dei pazienti di poter accedere ad alcuni trattamenti» conclude Baldini.

Riproduzione riservata