Mucche al pascolo

È vero che gli antibiotici finiscono nel piatto?

Quanti residui di antibiotici arrivano nei nostri piatti, passando dalle aziende zootecniche alle carni che mangiamo? Che peso ha l’uso veterinario di questi farmaci nello sviluppo dell’antibiotico-resistenza opposta dai batteri, causa ogni anno di migliaia di decessi? I controlli sono efficaci?

Qualche giorno fa, a margine del congresso della Società italiana di farmacologia, il professor Gianni Sava, farmacologo, ha denunciato: «Negli allevamenti intensivi si ricorre agli antibiotici per contrastare le infezioni legate alla promiscuità degli animali. Però questi farmaci vengono spesso somministrati anche a scopo preventivo, nonostante il bestiame non sia malato e la normativa ne vieti l’abuso. Ecco quindi che altri antibiotici, oltre a quelli assunti per curarsi, finiscono nella catena alimentare e poi sulle nostre tavole, spesso senza che ne siamo consapevoli».

Dal fronte degli addetti ai lavori arrivano smentite e rassicurazioni. Il Codacons annuncia la presentazione di un esposto.

Antibiotici per animali: ecco i dati Ue

L’ultimo rapporto pubblicato dall’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, certifica che i Paesi europei continuano a ridurre l’uso di antibiotici per gli animali. Le vendite in Europa sono diminuite di un terzo (il 32 per cento) tra il 2011 e il 2017. In particolare – come viene sintetizzato dai curatori del sito quotidianosanità.it – in ambito zootecnico «si è fatto meno ricorso a due delle classi di antibiotici di importanza fondamentale per la medicina umana: le vendite di polimixine sono precipitate del 66 per cento e le vendite di cefalosporine di terza e quarta generazione sono calate di oltre il 20 per cento».

La situazione non è però la stessa in tutta Europa, da dove provengono percentuali rilevanti delle carni servite sulle nostre tavole. «In 19 dei 25 Stati disponibili a fornire dati per il periodo 2011-2017 si è registrato un calo delle vendite di antibiotici veterinari di oltre il 5 per cento, in 3 nazioni (Bulgaria, Cipro e Polonia) invece c’è stato un incremento di oltre il 5 per cento, nelle restanti 3 (Lettonia, Irlanda e Finlandia) non si sono evidenziate variazioni significative».

L’Italia al secondo posto per quantità vendute

L’Italia, per quanto riguarda le vendite complessive espresse in tonnellate di principi attivi, si piazza al secondo posto dopo la Spagna (con 1.067,7 tonnellate contro le 1.770,4 della prima in classifica). Si tratta per la maggior parte (1.057,8) delle forme di antibiotici utilizzate principalmente negli animali da produzione alimentare. Se si estrapolano  i dati con un altro parametro, le vendite calcolate per unità animale, la posizione italiana è la stessa, la seconda. Al primo posto, in questo caso, troviamo Cipro (con 273,8 tonnellate pro-capite nel nostro Paese contro le 423,1 di Cipro e con la Spagna stavolta al terzo posto, con 230,3 tonnellate).

Tutto, però, andrebbe letto con un’avvertenza, data al ministero della Salute: i numeri sulle quantità vendute devono essere intesi come “una stima dell’uso di antimicrobici”, ma non tutti gli antimicrobici commercializzati sono somministrati al bestiame nell’anno di riferimento e pertanto «non è possibile determinare quanto sia effettivamente utilizzato per ciascuna specie animale». Altra indicazione basilare: «Per “antimicrobico” – termine ampio che comprende anche gli antibiotici – si intende qualsiasi sostanza di ordine naturale, semi-sintetica o sintetica, che, a concentrazioni in vivo, uccide i microrganismi o ne inibisce la crescita o la moltiplicazione. In base alla loro attività e al tipo di microorganismo che ne subisce l’azione, possono essere suddivisi in battericidi, fungicidi e virocidi».

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Codacons: «Intervenga la magistratura»

Questa sovrapposizione di dati, analisi e distinguo rischia di mandare in confusione il consumatore medio, preso tra chi lancia allarmi e chi li ridimensiona. Esagera chi grida all’abuso di antibiotici negli allevamenti di capi da macello? O minimizza troppo chi assolve senza riserve gli allevamenti? Il Codacons, per avere risposte e certezze, chiederà l’intervento della magistratura. «Secondo gli studiosi – premettono i paladini degli utenti – risulterebbe innegabile il legame tra i trattamenti a base di antibiotici negli allevamenti e l’altissimo numero di decessi causati da infezioni resistenti ai farmaci, in Italia ben 10.700 in un anno, contro i 33.000 di tutta la Ue.  L’Organizzazione mondiale della sanità – incalza il presidente dell’associazione, Marco Donzelli – ha già chiesto ai Paesi europei e mondiali di limitare l’utilizzo degli antibiotici negli allevamenti, ma purtroppo con tempistiche molto lunghe. Ciò comporta enormi rischi per tutti coloro che consumano carne da allevamenti italiani e non solo. Presenteremo un esposto alla Procura della Repubblica, affinché vengano condotte indagini approfondite sulle conseguenze per la salute umana. Bisogna intervenire subito e limitare il fenomeno prima che si continui a morire per questo».

I veterinari: «Basta allarmi ingiustificati»

Gaetano Penocchio, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici veterinari italiani, prova a tranquillizzare i consumatori, rettificando le affermazioni del farmacologo Sava e cercando di ridimensionare articoli e post allarmistici e ansiogeni. «Siamo stanchi di leggere e sentire informazioni fuorvianti, diffuse da chi non conosce bene la materia di cui parla. La normativa che regola l’uso dei farmaci in medicina veterinaria, quelli per gli animali destinati all’alimentazione umana, declina con estrema precisione le possibilità di utilizzo di antibiotici, anche alla luce della valutazione del rischio per l’eventuale presenza di residui di farmaci o di loro metaboliti. Dal 2006 – ricapitola l’esperto – è stato bandito l’uso degli antibiotici quali additivi alimentari. Inoltre è vietato somministrare agli animali antibiotici a scopo preventivo, se non quando strettamente permesso dalla legge per casi particolari, sotto la sorveglianza e la responsabilità del medico veterinario ed esclusivamente nelle situazioni in cui ci sia un reale pericolo di diffusione di una patologia infettiva. Dal 2010 – continua – le vendite degli antibiotici ad uso veterinario nei Paesi europei vengono attentamente monitorate dall’Agenzia del Farmaco e i risultati sono aggregati e resi pubblici ed accessibili attraverso l’Esvac project», l’European surveillance of veterinary antimicrobial consumption, il sistema di sorveglianza dei consumi negli allevamenti.

«Anche in Italia consumi tagliati negli allevamenti»

«A partire dal 2011 – prosegue Penocchio – la zootecnia Italiana ha tagliato l’uso del 30 per cento. Inoltre gli obiettivi del Piano nazionale di contrasto dell’antimicrobico resistenza prevedono un’ulteriore riduzione  del 30 per cento entro il 2020». Altra rassicurazione, sempre del rappresentante di categoria: «Di recente con grande sforzo da parte di tutte la categoria professionale, è entrato in vigore il sistema della ricetta elettronica veterinaria. Una delle finalità è proprio quella di monitorare e tracciare il consumo degli antibiotici, con la piena consapevolezza del ruolo che i veterinari hanno per la tutala della salute pubblica e della sicurezza alimentare del consumatore».

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Le statistiche fornite dai veterinari

Spiega sempre il presidente della Federazione degli ordini dei veterinari: «Bisognerebbe fare attenzione anche al modo di assemblare e fornire i dati. La quantità di antibiotici venduti in un anno non coincide con gli antibiotici somministrati e i numeri che circolano sono datati e superati, non attuali. Il ministero della Salute ha integrato i dati Ema-Esvac con i valori di consumo reali, indicativi. L’unità di misura corretta è la Ddda, in inglese define daily dose animal, cioè la quantità di farmaci utilizzata in relazione ai giorni di trattamento. Le informazioni rilevate vengono visualizzate in Classyfarm, un sistema Integrato nazionale in grado di effettuare la categorizzazione delle aziende di suini, bovini ed avicoli in base al livello di rischio. I dati di consumo delle singole realtà sono confrontati con la media dei consumi provinciali, regionali e totali e vengono forniti ai colleghi, agli allevatori e al servizio veterinario pubblico, per consentire di intraprendere eventuali misure per migliorare il livello di benessere e di biosicurezza e di ridurre l’utilizzo di antimicrobici. Un esempio dei risultati ottenuti è rappresentato dal settore avicolo. Nei polli il consumo di antimicrobici è passato da 20,2 Ddda nel 2015 a 2,5 Ddda nel 2018 e nel tacchino negli stessi anni è sceso da 34,2 a 10,8 Ddda. Anche nel comparto suinicolo la somministrazione di colistina, uno degli antibiotici di cui ci si serve, si è ulteriormente ridotta. Il consumo è sceso sotto le 0,32 Ddda, con un calo del 99 per cento rispetto al 2014. La formazione e il lavoro fatto negli anni 2014-2016 hanno portato a risultati positivi che si sono resi evidenti nel 2018 e che 5 anni prima sembravano irraggiungibili».

«Migliaia di controlli a tutela della salute»

Non è tutto. «Da anni – ricorda Penocchio – in Itala è operativo un Piano nazionale per monitorare possibili residui di farmaci o di contaminati ambientali nelle derrate di origine animale, così come indicato dalla normativa comunitaria. Il ministero della Salute, attraverso un imponente dispiegamento di risorse dei Servizi veterinari, esegue ogni anno migliaia di analisi per tutelare la sicurezza del consumatore. Nel corso del 2018 – esemplifica –  sono stati prelevati 32.893 campioni, per un totale di 325.390 analisi. Solo lo 0,2 per cento non sono risultati conformi alle disposizioni. Per questo – insiste – non è corretta la diffusione di informazioni che indichino la presenza di residui di molecole antibiotiche all’interno delle carni e degli alimenti di origine animale o che queste vengano ingerite ogni giorno all’insaputa del consumatore. L’impianto legislativo che regola tutte le produzioni di alimenti di derivazione animale è efficace, funziona. Le notizie prive di fondamento e le esagerazioni – osserva – possono seriamente danneggiare economicamente le produzioni alimentari del nostro Paese». E per le carni importate dall’estero, all’estero e importate, si può stare sicuri? «Il sistema di controlli – assicura  il rappresentante dei veterinari- dà garanzie, ci fa stare sereni». Certo, non può che ammettere, poi esistono sacche di illegalità e abusi, traffici clandestini di farmaci strong, macelli clandestini e allevamenti in condizioni pietose, animali e carni che sfuggono a verifiche e analisi.

«Non minimizzare, ma affrontare il problema»

Alessandro Miani, presidente della Società italiana di medicina ambientale, prende posizione dalle pagine web di quotidianosanita.it, riportando l’attenzione su criticità e pericoli: «È necessario affrontare il nodo cruciale dell’enorme uso di antibiotici negli allevamenti intensivi, dal pollame agli animali di grandi taglie. Il consumo viene spesso minimizzato, ma invece è responsabile di resistenze agli antimicrobici riscontrabili sia nei tessuti animali sia nelle deiezioni disperse in ambiente o infilanti la falda. Intervenire in ambito zootecnico con un capillare controllo dei veterinari nella prescrizione e somministrazione di antibiotici è dunque indifferibile almeno quanto continuare a stimolare i medici e i pazienti a riservare l’assunzione di queste preziose armi antibatteriche ai casi realmente necessari. Si deve attivare – suggerisce – una cabina di regia nazionale, con articolazioni regionali e  con l’inclusione dei veterinari, a partire dagli ordini professionali e dai servizi dei dipartimenti di prevenzione delle Asl».

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