Che cosa insegna la Brexit all’Europa

  • 23 04 2019

La caotica uscita della Gran Bretagna dalla Ue (prorogata a ottobre ma possibile già a maggio) avrà ricadute economiche, politiche e sociali su tutti gli Stati membri. E dimostra, in particolare agli euroscettici, che lasciare l’Unione non conviene

È un acronimo talmente entrato nell’uso comune in Europa da essere usato, nella versione “brexiting”, come sinonimo di temporeggiare, restare pur volendo andarsene. L’ultima certezza sulla Brexit, a 3 anni dal referendum del 23 giugno 2016 con cui i britannici hanno deciso per l’uscita dalla Ue, è la proroga al 31 ottobre che Bruxelles ha concesso al Parlamento inglese per approvare l’accordo di separazione.

Dopo i ripetuti “no” incassati dalla maggioranza, ora la premier Theresa May pare prossima a un’intesa con i laburisti di Jeremy Corbyn. Con un obiettivo: fare presto, prima del 22 maggio, altrimenti Londra sarà obbligata a partecipare alle elezioni europee. Che avvenga prima o dopo l’estate, il prezzo dell’uscita dall’Unione è comunque alto: l’economia inglese, finora, ci ha solo rimesso. E rischiano di perderci anche gli altri membri Ue. Vediamo perché.

L’Italia dovrà dare un contributo aggiuntivo di 1,2 miliardi di euro

«La Gran Bretagna è tra i cosiddetti “contributori netti”, cioè quelli che danno di più rispetto a quanto ricevono» spiega Giorgia Giovannetti, prorettore dell’università di Firenze con delega ai rapporti internazionali. Nel 2017 ha versato 10,6 miliardi di euro nelle casse europee, avendone indietro 6,3. Miliardi che ora verranno risparmiati. Così il bilancio Ue sarà più magro e dovrà pensarci chi resta (si stima, per l’Italia, un contributo aggiuntivo di 1,2 miliardi). Denaro a parte, Londra punta ad avere mano libera su altri argomenti-chiave come i flussi migratori e il commercio. Fino al 31 dicembre 2020 sarà garantita la libera circolazione delle persone, come oggi.

E la Gran Bretagna, da fine marzo, sta invitando i 3,7 milioni di cittadini comunitari che risiedono o lavorano nel Paese (700.000 sono italiani) ad aderire a una procedura rapida per ottenere lo status di residenti, automatica per chi è arrivato da almeno 5 anni. Dopo, chi vorrà superare la Manica avrà bisogno di un visto o di un permesso temporaneo. «Quanto al commercio, molto dipende dai futuri accordi» aggiunge l’esperta. «Se Londra resterà nell’unione doganale, cambierà poco». Altrimenti, sarà indipendente nello stabilire dazi sui prodotti, non dovendo sottostare a quanto stabilito a Bruxelles.

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I colossi dell’industria hanno già deciso di spostare all’estero le loro sedi

«Lasciando l’Unione, la Gran Bretagna perde alcuni tipi di fondi europei che sono stati fondamentali per lo sviluppo e per attirare i migliori cervelli, come gli Horizon, legati alla ricerca, e quelli del progetto Erasmus, che significa stop ai 31.000 studenti europei che ogni anno studiano nel Paese e ai 16.000 inglesi che si spostano nel continente» aggiunge Giorgia Giovannetti.

Sul fronte finanziario, secondo la società di consulenza Ernst & Young, la City potrebbe subire un deflusso di capitali di 1.000 miliardi di sterline e 7.000 posti di lavoro andrebbero persi. Mentre in campo industriale, Nissan, Honda, Sony e l’inglesissima Dyson sono solo alcuni dei colossi che hanno annunciato la chiusura di stabilimenti o lo spostamento di sedi, per evitare l’incertezza e i potenziali contraccolpi commerciali dovuti all’uscita.

«Tutti posti di lavoro che non tornano più. Perché le imprese ragionano sul lungo periodo e una volta effettuata una scelta, che comporta investimenti, poi la mantengono» dice l’esperta. Insomma, uscire dall’Unione sembra davvero un autogol. Ma c’è qualcun altro che vorrebbe abbandonarla? E chi invece bussa per entrare?

Nessun Paese pensa a un’altra “exit”

Anche tra i governi più critici verso l’Ue, come quelli del blocco di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia), nessuno pensa seriamente di uscire, soprattutto per non perdere risorse vitali. Basti pensare alla Polonia, che nel 2017 è stata il primo percettore di fondi Ue, per 11 miliardi. Quanto ai futuri ingressi, i prossimi a entrare nel 2025 saranno Montenegro e Serbia.

La Turchia è in “stand by” da 10 anni. «Il suo processo di adesione è un passaggio controverso» spiega Valeria Talbot, ricercatrice dell’Ispi, l’Istituto studi di politica internazionale. «Parliamo di un Paese da 80 milioni di abitanti: il suo ingresso cambierebbe il volto dell’Ue e del Parlamento».

Noi e l’Europa: il progetto di Donna Moderna in collaborazione con #100esperte

Dal numero 16, e per altre 4 settimane, pubblichiamo inchieste che hanno come tema l’Unione europea dal punto di vista politico, economico, culturale. Un avvicinamento alle elezioni del 23-26 maggio (in Italia si vota il 26). Lo speciale è realizzato in collaborazione con “100 donne contro gli stereotipi”, un database di esperte di Stem, politica internazionale ed economia: un progetto ideato dall’Osservatorio di Pavia e dall’Associazione Gi.U.Li.A., sviluppato con Fondazione Bracco e grazie al supporto della Rappresentanza in Italia della Commissione europea.

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