L’OMS riconosce il burnout come malattia da lavoro

L’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce la sindrome da stress da lavoro. Tra i più a rischio le donne e i caregiver: ecco perché, come riconoscerlo e cosa potrebbe accadere ora per chi ne soffre

Forte demotivazione, isolamento, conflitti con i colleghi o il capo, senso di colpa, irritabilità, ma anche sintomi fisici come mal di testa, specie per le donne, o di schiena, disturbi del sonno o dell’appetito e debolezza. Sono i tratti più tipici con i quali si manifesta il burnout (dall’inglese “burn”, che significa “bruciato”, “fuso”), che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto come vera e propria sindrome.

È lo stress da lavoro, che è studiato dal 1974 e oggi ha trovato un primo riconoscimento ufficiale da parte dell’agenzia Onu che si occupa di salute. A volte confuso con l’esaurimento nervoso, ha la caratteristica principale di verificarsi in un contesto tipicamente professionale: “Di burnout si parla da circa 45 anni, è una sindrome che è stata studiata inizialmente nelle professioni d’aiuto, come quella di medico, infermiere o psicologo. Si verifica quando ci si sente ‘bruciati’ e messi a dura prova dal proprio lavoro e dal contatto con la sofferenza. Man mano il concetto è stato esteso ad altri ambiti professionali per arrivare al riconoscimento da parte dell’Oms” spiega Alessandro Calderoni, psicologo e psicoterapeuta.

Cos’è il burnout

Da disturbo che colpiva soprattutto gli operatori sanitari (e simili), il fenomeno nel corso degli anni si è esteso, interessando ad esempio l’ambito della formazione e istruzione, e riguardando un numero sempre maggiore di educatori e insegnanti nelle scuole. Di recente si è iniziato a parlare anche di burnout genitoriale, che colpirebbe soprattutto le madri, in difficoltà e alle prese con solitudine, stanchezza e senso di inadeguatezza nella gestione dei figli. Secondo uno studio della statunitense JAMA Network Open, condotto tra il 2014 e il 2017, il burnout tra i medici è aumentato passando dal 40,6% al 45,6%. Lo stress da lavoro può avere conseguenze fisiche ed emotive importanti e viene riconosciuto grazie a una serie di sintomi precisi: “Non è una malattia, ma si riconosce da una mancanza di energia o spossatezza, isolamento, sensazione di negatività, diminuzione del rendimento sul lavoro. L’Oms chiarisce che si tratta di un fenomeno che riguarda l’ambito lavorativo, è una vera e propria forma di stress da lavoro” spiega Calderoni.

Ma come riconoscere il burnout? “In attesa di leggere quali sintomi saranno inseriti nei manuali ufficiali, stando agli studi più recenti condotti nell’ultimo decennio dai due maggiori esperti (Christina Maslach e Michael Leiter), il burnout è associato a morale basso e scarse performance lavorative. È considerato l’opposto dell’engagement, cioè quella dimensione di coinvolgimento del soggetto all’interno del proprio lavoro che rende motivati e più produttivi. A contribuire allo stress da lavoro ci sono anche fattori legati all’ambiente di lavoro stesso, come le relazioni con colleghi e capi. Quello che accomuna tutti coloro che ne soffrono è che si sentono ‘consumati’ professionalmente e, potenzialmente nei casi più estremi, anche personalmente” dice l’esperto.

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Che differenza c’è tra burnout e esaurimento nervoso

Attenzione a non confondere il burnout con l’esaurimento nervoso: “In termini strettamente clinici quest’ultimo non esiste. È di fatto una depressione, o meglio una sindrome ansioso-depressiva, che colpisce la persona indipendentemente dall’ambito in cui si muove. Significa che il soggetto è depresso qualunque lavoro faccia, ovunque viva e in qualunque momento. Il burnout è invece una sindrome professionale, quindi nella diagnosi va valuto il nesso con le condizioni lavorative” dice Calderoni.

Il burnout può manifestarsi a livelli diversi: dal punto di vista cognitivo ed emotivo, prevede un distacco emotivo, relazioni e affetti trascurati, e un’eccessiva importanza data al lavoro, ambito peraltro in cui si riscontra una forte demotivazione. In pratica il lavoro diventa centrale, è causa ed effetto dell’insoddisfazione. Dal punto di vista del comportamento, il lavoratore può arrivare a forme di assenteismo e mancanza d’iniziativa, è come se si ripiegasse su se stesso. A volte ci possono essere comportamenti reattivi come un po’ di aggressività, mentre altre volte chi soffre cerca rimedio da solo, ad esempio ricorrendo ad alcol o sostanze stupefacenti” spiega Alessandro Calderoni, che aggiunge: “Ma il burnout può avere anche conseguenze fisiche tangibili: “Sono quelle tipiche del senso di malessere come disturbi del sonno, dell’appetito, debolezza, emicranie (soprattutto nelle donne), mal di schiena (specie negli uomini) e contratture”.

I soggetti più a rischio: donne e caregiver?

Le ricerche sul fenomeno indicano che i soggetti più a rischio sono quelli che svolgono le cosiddette “professioni d’aiuto” o helping professions. Rientrano in questa categoria anche i caregiver, ossia chi si prende cura di anziani, malati o disabili? Se così fosse, si spiegherebbe perché il burnout sembra più diffuso tra la popolazione femminile: “Statisticamente le donne sono più soggette, ma non ci sono correlazioni scientifiche tra l’attitudine del prendersi a cuore la sorte delle persone e il burnout. Occorre stare attenti a non cadere nei luoghi comuni secondo i quali le donne sarebbero più a rischio perché si dedicano maggiormanete alla cura delle persone, perché non ci sono dati su questo. I lavori di cura sono stati studiati perché sono quelli che mettono in condizioni di maggiore stress, ma riguardano medici così come poliziotti o vigili del fuoco: queste categorie tendono a considerare il lavoro come una missione di vita, vedono più facilmente fallimenti nei loro compiti e subiscono stress organizzativi perché sono a contatto con morte o imprevisti. A contribuire al senso di ‘prosciugamento’ sono tendenzialmente il fatto di investire molto nel lavoro, avere imprevisti, non essere premiati in modo adeguato, avere a che fare con frequenti innovazioni (anche, per esempio, cambiare software aziendali o ambiente lavorativo spesso), tenere ritmi di lavoro inumani o orari da consulente, quindi con inizio al mattino presto e fine alla sera tardi” spiega lo psicologo e psicoterapeuta.

“In generale i soggetti più a rischio rientrano in una serie di categorie. Ne sono più colpite le persone che aspirano a una grande affermazione professionale, quelle che hanno anche un forte senso di giustizia, di meritocrazia e impegno, che  si giocano la propria vita personale nel nome di quella professionale, quelle che pretendono tanto o troppo dal lavoro, quelle che confliggono di continuo con i colleghi o i superiori” premette Calderoni, che aggiunge: “Ci si è chiesti spesso se il burnout sia più causato dal lavoro o dalle condizioni del soggetto che ne soffre. In realtà è un problema che deriva dall’interazione persona-lavoro” spiega l’esperto.

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Burnout: soluzioni e cure

L’Organizzazione Mondiale della Sanità al momento non identifica apertamente una cura: “Indubbiamente è possibile un intervento di supporto psicoterapeutico alla persona, secondo alcune modalità, per esempio: 1) insegnare tecniche per ridurre il grado di attivazione, cioè tecniche di rilassamento e regolazione emotiva; 2) rafforzare le abilità di copying, cioè la capacità di far fronte ai momenti di stress, come una migliore gestione del tempo e del conflitto, una modifica del modo di pensare e svolgere le mansioni, una maggiore accettazione, ecc. Inoltre, è importantissimo un richiamo a una vita attiva e sana: il movimento fisico e una buona alimentazione sono correlate a una maggiore resilienza, perché mettono l’organismo e la persona nella condizione di tollerare meglio lo stress. Non da ultimo anche l’addestramento della consapevolezza: capire quali sono i propri punti deboli e migliorare l’efficacia delle proprie azioni. Se in questo è importante la psicoterapia, anche il ruolo della rete familiare, insieme a quella di amici e colleghi, può dare un contributo. È ciò che negli ultimi anni è chiamato work life balance: l’equilibrio tra la vita lavorativa e quella privata. Il concetto è che se io compenso una vita professionale molto stressante con una sfera personale fortemente soddisfacente riesco a stare meglio” spiega lo psicologo e psicoterapeuta Alessandro Calderoni.

Che fare se è risconosciuto il burnout?

Per riconoscere il burnout si indagano in particolare 6 aree tematiche (il cosiddetto AWModel, Areas of Worklife Model): il carico di lavoro, il controllo (quanto la persona si sente autonoma), la ricompensa (cioè se ottengo dei premi sia relazionali che monetari quando lavoro), la comunità (l’insieme delle relazioni), l’equità (se percepisco il senso di giustizia) e i valori (quanto i valori della persona sono in linea con quelli dell’impresa per la quale lavora).

Ma cosa fare se si riscontra un caso di burnout? “Al momento non ci sono ancora indicazioni su come e cosa possa portare concretamente il riconoscimento di un caso di burnout in un soggetto. Di sicuro è una sindrome da stress e disagio da lavoro correlato, come per il mobbing. Ma se per il mobbing non si prevede una certificazione medica, nel caso del burnout l’Oms ha riconosciuto una sindrome, uno stato che sicuramente necessita di una cura, quindi bisogna capire come intervenire dal punto di vista legale, delle tutele sul posto di lavoro. Perché si traduca, ad esempio, in giorni di malattia ci vuole una diagnosi di carattere medico da parte di un centro di medicina del lavoro, insieme a  un intervento di tipo psicologico primario. Ad oggi la sua gestione non è ben chiara e occorrerà attendere come sarà inserita nelle singole legislazioni: a mio parere ci sono gli estremi per considerare che possa esserci un riconoscimento di carattere legale” dice Calderoni.

Congedi, assegni e invalidità?

In molti si interrogano su questo aspetto. Il burnout non è una malattia, ma può portare a conseguenze fisiche anche importanti e invalidanti. È in questi casi che si può prospettare una malattia professionale. Se, ad esempio, portasse a una depressione si potrebbe configurare una riduzione della capacità lavorativa, cioè una invalidità che già oggi può andare dal 10% (sindrome depressiva endoreattiva) all’80% (ad esempio, nel caso di una psicosi ossessiva).

Un eventuale assegno è previsto, in questi casi, con una invalidità di almeno il 33% e un’età tra 18 e 65 anni. Se il medico riconoscesse la necessità di un periodo di riposo o persino una disabilità che limiti l’integrazione sociale, lavorativa, personale o familiare, si potrebbe configurare la possibilità di chiedere permessi retribuiti con la Legge 104, di scegliere la sede di lavoro o rifiutare un trasferimento, o ancora agevolazioni fiscali come quelle previste per l’acquisto di sussidi informatici, fino al caso limite dell’assegno di accompagnamento, se si rendesse impossibile il trasferimento autonomo del soggetto. Ipotesi che però al momento non sono previste, in attesa di una regolamentazione specifica.

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