Chi libera balene e delfini impigliati nelle reti

Aumenta il lavoro per i subacquei della Guardia Costiera e i biologi di associazioni animaliste e ambientaliste dopo i recenti casi di cetacei impigliati nelle reti da pesca al largo della Sicilia. Ecco perché questi interventi sono così importanti

Spike e Furia, ma anche Codamozza: sono nomi diventati protagonisti delle prime pagine dei giornali, ma anche in tv. Sono cetacei salvati dopo essere rimasti intrappolati nelle reti dei pescatori nel Mar Mediterraneo, soprattutto al largo della Sicilia. L’ultimo caso in ordine di tempo è proprio quello del capodoglio Furia, liberato dopo due ore dai subacquei della Guardia Costiera e da volontari delle associazioni ambientaliste e animaliste. Ecco come avvengono i salvataggi e perché questi interventi sono così importanti.

Chi salva i cetacei

«I primi interventi dipendono dal tipo di segnalazione, che a volte arriva da associazioni come la Filicudi Wildlife Conservation, molto attiva in Sicilia e che spesso monitora le acque al largo dell’isola. Segnalazioni arrivano anche da turisti o diportisti, ma a intervenire con mezzi idonei e personale specializzato è solitamente la Guardia costiera. Alla fine si tratta di un lavoro di squadra» spiega Raffaele Cava di Legambiente. «Oltre a occuparci di protezione dell’ambiente marino e costiero, con attività di prevenzione e contrasto degli illeciti, tra i nostri compiti c’è la tutela delle specie marine protette, che avviene con i nostri mezzi aeronavali e con il supporto dei Laboratori ambientali mobili e dei reparti subacquei» spiega il Capitano di Vascello Cosimo Nicastro, Capo Ufficio Comunicazione della Guardia Costiera. Sono stati gli esperti della Guardia Costiera, ad esempio, a intervenire lo scorso dicembre dopo l’avvistamento di orche al largo di Genova, mentre a Lipari hanno liberato, anche col supporto di alcuni diving locali, il capodoglio rimasto impigliato in una rete da pesca.  

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Come e quando si interviene

Gli interventi per salvare i cetacei, i cui avvistamenti sono aumentati con il lockdown complice la riduzione delle attività di pesca, possono essere molto complessi: nel caso di Furia, un esemplare femmina, ci sono volute due ore per liberare (solo in parte però) la pinna caudale. Le prime operazioni hanno permesso alla balena di tornare a respirare, dopo che le reti usate per la pesca del tonno e del pesce spada, vietate per legge, le impedivano anche di tornare in superficie per respirare. Di Furia, però, ora si sono perse le tracce, senza che sia stato del tutto possibile tagliare le nasse avvolte alla coda.

Capodoglio Furia con coda nella rete alle Eolie
Dal video girato dalla Guardia Costiera durante il tentativo di salvataggio del capodoglio Furia rimasto impigliato nelle reti da pesca alle Eolie

A tagliare il cordame sono stati i sub della Guardia Costiera, che si sono immersi con muta e ossigeno per lavorare in modo accurato e a lungo. «In caso di segnalazioni di specie marine in difficoltà, come è stato per il capodoglio impigliato nella rete da pesca a largo di Salina (Eolie), la Guardia Costiera interviene in primo luogo con i propri mezzi navali (gli equipaggi delle motovedette sono composti anche da donne) per poter individuare l’esemplare, monitorarlo e garantire che altre imbarcazioni non si avvicinino allo stesso. In caso di necessità, i sub della Guardia Costiera intervengono per liberarlo dalle reti» spiega Nicastro. Sul posto possono intervenire, su richiesta della stessa guardia Costiera, anche rappresentanti di enti scientifici «che forniscono un supporto fondamentale per comprendere lo stato di salute dell’animale» prosegue il comandante. «Nel caso di Furia, il capodoglio in difficoltà avvistato sabato scorso, la segnalazione è arrivata da alcuni diportisti che navigavano in zona. Per questo invitiamo tutti coloro che si trovano in situazioni simili a contattarci in caso di avvistamento e di tenersi a distanza da questi animali, nell’interesse di entrambi. Il mare è l’ambiente in cui loro vivono e dove noi siamo ospiti».

Reti illegali e pesca pericolosa

Da gennaio 2020 sono 100 i km di reti irregolari sequestrati dalla Guardia Costiera nel Tirreno meridionale. Si tratta per lo più di spadare (dal nome della pesca allo spada per le quali erano usate), nasse messe al bando dall’Europa nel 1999. Anche in Italia sono vietate da anni, ma continuano a essere usate illegalmente. Sono molto lunghe e creano una sorta di muro invisibile contro cui finiscono cetacei, tartarughe, persino uccelli. In teoria sono state sostituite dalle ferrettare, di dimensioni più contenute, ma le associazioni spiegano che spesso i pescatori le legano tra loro a formare reti più grandi, di fatto con lo stesso risultato delle spadare. «L’Italia fa uno sforzo enorme per il controllo dell’uso delle reti, ma è molto difficile effettuare accertamenti a tappeto, data la vastità del mare: è come cercare un ago in un pagliaio» spiega Alessandro Lucchetti del Cnr, coordinatore del progetto Life Delfi, che riguarda il problema di un altro animale marino, anch’esso spesso vittima delle reti: il delfino.

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Una pesca sostenibile è possibile

Eppure una pesca sostenibile, che non nuoccia agli animali marini, è possibile. Con il progetto Life Delfi, per esempio, si cerca di trovare soluzioni che salvaguardino i pesci e in particolare i delfini, ma anche i pescatori professionali, spesso danneggiati da un numero crescente di delfini. A coordinarlo è il Cnr (Consiglio Nazionale Ricerca) e tra i partner c’è anche Legambiente. «Da diversi anni i pescatori si lamentano del fatto che i delfini si cibano delle prede più facili, che trovano già impigliate nelle reti dei pescatori. Ma l’interazione è diventata negativa e dannosa per entrambi, perché i delfini rimangono impigliati a loro volta mentre i pescatori hanno danni economici perché i delfini tolgono parte del pescato o rompono le reti. Per questo abbiamo pensato a un progetto che prevede, per esempio, l’uso di dissuasori, sia acustici (Pinger) che visivi, come lampade montate sulle reti per tenere lontani i delfini dalle nasse. I pescatori sono anche stati esortati a usare nasse di nuova generazione rispetto alle vecchie reti da porre sui fondali. Life Delfi prevede anche un codice di condotta che porti a una certificazione con relativo marchio di qualità (Dolphin Safe) per il pesce pescato in modo sostenibile» spiega Lucchetti.

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Cosa servirebbe: multe e aree protette

Nel 2009, poi, la Corte europea di giustizia ha inviato all’Italia un avvertimento (ma nessuna sanzione) per inadempienza nei confronti della legge europea che norma l’uso di spadare. Al momento chi viola le leggi in materia di pesca e reti rischia multe da 300 euro, una cifra che secondo le associazioni è troppo bassa. «Servirebbe da una parte il vero rispetto della legge che vieta le spadare, che uccidono tutto, dagli uccelli ai delfini ai capodogli alle tartarughe, rovinando anche il fondale marino. La pesca illegale permette enormi guadagni che sono anche superiori alle multe. Andrebbe inoltre rafforzato il sistema dei controlli, specie nelle realtà piccole (come le isole al largo della Sicilia) o in alcune zone, come la Calabria, dove sono quasi inesistenti. Sarebbe anche necessario incentivare un consumo di pesce proveniente da pesca sostenibile, effettuata con piccole reti o sistemi meno impattanti» spiega Andrea Brutti, referente per la fauna selvatica di Enpa, l’Ente Nazionale per la Protezione degli Animali.

Va in questa direzione una delle proposte del progetto Life Dolfi: «Riguarda la promozione di attività economiche alternative come il dolphin watching, nel quale coinvolgere direttamente i pescatori a compensazione della pesca nel momento in cui questa è limitata, e la certificazione di prodotto» spiega Stefano Di Marco, coordinatore Progetti di Legambiente, in riferimento al marchio Dolphin Safe per il pesce pescato in modo sostenibile.

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