Carlo Mazzone, il docente italiano candidato al Nobel dei professori

Chi è Carlo Mazzone, professore di informatica in un istituto di Benevento, giunto in finale al Global Teacher Prize, il premio Nobel dei professori

Carlo Mazzone ha quasi 54 anni, li compirà il prossimo 10 dicembre e quest’anno può festeggiare con la nomina a finalista del Global Teacher Prize 2020. È insegnante di informatica all’Istituto Tecnico industriale G.B. Bosco Lucarelli di Benevento, in Campania, ed è l’unico italiano ad essere stato scelto tra i Top 10 di quello che è considerato il Premio Nobel dell’insegnamento. La comunicazione lo ha raggiunto ufficialmente il 1° ottobre, mentre la scelta del vincitore del premio avverrà il 3 dicembre in modalità virtuale, a causa dell’emergenza sanitaria. Mazzone è stato scelto tra oltre 12.000 candidati provenienti da 140 Paesi nel mondo. Gli altri finalisti scelti finora provengono da Inghilterra (Jamie Frost), Usa (Leah Juelke), Sudafrica (Mokhudu Cynthia Machaba) Corea del sud (Yun Jeong-hyun). Nelle prossime settimane saranno comunicati anche i nomi degli altri insegnanti in lizza per il premio.

A sostenere la bravura dell’insegnante sono i riusultati degli alunni. Gli studenti del professor Mazzone hanno avuto grande successo nelle competizioni Junior Achievement per la formazione aziendale, vincendo la fase regionale in Campania e il concorso nazionale italiano del 2019. Hanno anche rappresentato l’Italia a un concorso internazionale (Lilla), arrivando seconda. E lui stesso ha creato diverse piattaforme di e-learning per gestire e semplificare il lavoro dei ragazzi. Ora Mazzone è appena tornato in classe per l’inizio del nuovo anno scolastico e noi lo abbiamo intervistato in una pausa tra una lezione e l’altra.

Riapertura delle scuole e candidatura nello stesso giorno: è emozionato?

«Per me è una doppia festa: in Istituto ero tornato da diverse settimane, ma oggi è il primo giorno di scuola in presenza con i miei studenti, dopo la chiusura per Covid. In più provo un’emozione enorme a rappresentare il mio Paese e ad essere arrivato in finale anche se mi sarei accontentato dell’incontro che ho avuto con gli altri Top 50, dai quali ho tratto nuova ispirazione e verso i quali non mi sento affatto superiore, anche se non sono entrati nei primi dieci».

Lei è figlio d’insegnanti, ma inizialmente aveva scelto una carriera diversa. Come è tornato alla scuola?

«La scuola è sempre stata presente in casa mia: mio padre era dirigente scolastico, suo fratello anche, mia mamma ha iniziato a insegnare a 17 anni e a 21 era di ruolo alla primaria, mia sorella è tuttora professoressa di italiano in un liceo di Gorizia: insomma, sembra che l’insegnamento scorra nelle nostre vene. Scherzi a parte, dopo la laurea in Informatica ho lavorato in diverse aziende, anche molto grandi, specializzandomi poi nei corsi di aggiornamento informatico per il personale. Nel 2000, invece, ho provato il concorso. Quando l’ho vinto, ho accettato la cattedra con titubanza: non ero sicuro che mi sarebbe piaciuto, invece è stato l’inizio di un’avventura che ricomincia ogni singolo giorno che entro in classe, con passione, che poi è quella che chiedo e cerco di instillare nei miei ragazzi: ci vuole voglia di fare, di creare, altrimenti la scuola – come anche gli altri lavori – possono diventare pesanti. La vera sfida è provare sempre entusiasmo, anche e forse soprattutto nelle materie tecniche come quella che insegno io: si sa che gli informatici sono ritenuti dei nerd, chiusi nel proprio mondo. Invece si può fare squadra e persino creare anche in questo settore. Io mi ritengo fortunato a fare un lavoro che mi appassiona e che mi porta a non guardare mai l’orologio per finire il prima possibile».

Nel ruolo di professore è severo?

«Certamente interrogo anche io, ma spesso dico ai miei studenti: «Non ditemi quello che sapete, ma quello che non sapete, fatemi domande e chiedete ciò che può aiutarvi a crescere, ad arricchirvi». Cerco di instillare la voglia di sapere e imparare qualcosa di nuovo, possibilmente appassionante per loro. Questo non significa che la scuola sia un parco giochi: ci sono anche i voti, che servono a capire quali sono le difficoltà, aiutano a misurare le competenze. Non devono però essere visto come strumento per ridurre la personalità di uno studente, bensì per stimolarlo a crescere».

Da docente di informatica e creatore di piattaforme di e-learning, promuove la Didattica a Distanza?

La promuovo per un semplice motivo: il ricorso alla Dad era invitabile, durante la pandemia: non c’erano soluzioni alternative. Tutti avremmo preferito restare in presenza, come avviene adesso pur con tutte le precauzioni del caso, ma allora non si poteva. Certo, ogni soluzione può essere criticata. Si è parlato di discriminazione tra bambini e ragazzi che potevano permettersi la strumentazione e l’accesso alle reti informatiche e quelli più disagiati. Io credo che semplicemente si sia sostituita la vecchia dispersione scolastica con la nuova dispersione digitale. La vera sfida è non lasciare indietro nessuno. La pandemia ci ha comunque costretto a conoscere meglio il digitale, che sarà fondamentale nel prossimo futuro, sia a scuola che nel mondo del lavoro. Detto questo, io auspico di rimanere nelle aule e nei laboratori, come nel nostro caso, perché oltre a non dover fare i conti con possibili difficoltà di collegamento, l’empatia che nasce da uno sguardo tra professore e studente non è riproducibile da alcuno strumento digitale».

Quali sono i punti di forza e di debolezza della scuola italiana?

«Il maggiore punto di forza sono gli insegnanti, che anche in pandemia hanno dimostrato di sapersi in larga parte adattare e di avere ancora voglia di mettersi in discussione, senza perdere entusiasmo. Mia moglie insegna alla scuola primaria (sì, anche lei è insegnante!), i nostri figli sono in 1° e 3° media, e io ho potuto vedere che lavoro straordinario è stato fatto pur tra molte difficoltà. Quello che auspico è una didattica nuova. Forse si potrebbe fare un tipo di lavoro un po’ più progettuale e che coinvolga maggiormente i ragazzi, anche nelle materie umanistiche. Io lavoro suddividendo in gruppi di lavoro e affidando a ciascuno un progetto che spesso è scelto dagli stessi studenti. Loro ci lavorano per un tempo variabile e necessario a svilupparlo, che può essere di settimane o mesi. Questo è un concetto preso dal mondo del lavoro, in particolare informatico, dove non conta l’orario destinato a un’attività, ma il risultato e la sua qualità. Credo nell’importanza di lavorare non sommando una serie di attività, ma per obiettivi e se questi sono scelti dai ragazzi, loro ci lavorano con più entusiasmo, costruendo competenze e acquisendo conoscenze. Questo è l’unico appunto che faccio oggi, perché per il resto preferisco rimanere ottimista e accendere il faro sulle positività».

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