Ansia e attacchi di panico: come combatterli

Se la tensione e la paura rischiano di farci perdere il controllo dobbiamo affidarci al respiro, come insegna lo yoga. Ma ora una ricerca scientifica lo dimostra

Un respiro profondo. Quante volte questo piccolo gesto ha placato l’ansia per un colloquio di lavoro o la voglia di sbottare durante una discussione? «Se fatto in un certo modo, il respiro è una pausa che per qualche istante ci separa dal mondo e ci aiuta a controllare le emozioni negative» dice Mike Maric, campione mondiale di apnea, preparatore di numeri uno dello sport e autore del libro La scienza del respiro (Vallardi), in uscita a ottobre. «È ciò che da secoli ci insegnano la medicina ayurvedica, lo yoga e la meditazione. E pochi mesi fa è arrivata anche la conferma scientifica».

Di che cosa si tratta?

«Di uno studio pubblicato a fine marzo su Science, la bibbia della ricerca medica. Per la prima volta, gli studiosi della Stanford university hanno isolato all’interno del tronco encefalico un sottogruppo di 300 neuroni che controllano contemporaneamente il respiro, la calma e l’attenzione».

Perché questa scoperta è così importante?

«Il motivo lo hanno spiegato gli stessi ricercatori: d’ora in poi, per curare l’ansia e gli attacchi di panico, si lavorerà sempre di più sul respiro».

Appena ci sentiamo sotto pressione, respiriamo in modo diverso. Come mai?

«Perché il diaframma, che è il nostro principale muscolo inspiratorio, subisce una contrattura. Si blocca, procurandoci la sensazione di un pugno a livello della bocca dello stomaco. Di conseguenza, respiriamo solo con la parte alta del torace, con le narici allargate e a un ritmo più accelerato, come fanno i cani dopo una corsa».


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L’apnea contro il tumore

È un trial clinico recente, ma molto promettente. I medici della University of Birmingham, in Inghilterra, hanno chiesto ad alcune donne malate di tumore al seno di trattenere il respiro per alcuni minuti (fino a 5) durante la radioterapia. L’obiettivo? Mantenere il petto fermo, per consentire ai tecnici di colpire in modo selettivo l’area malata, senza danneggiare i tessuti circostanti. Secondo i ricercatori, l’esperimento è stato un successo. In foto: il campione di apnea Mike Maric.


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Mike Maric durante l’evento Sector Breathless Challenge


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Mike Maric durante l’evento Sector Breathless Challenge


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Mike Maric e Sara Cardin durante l’evento Sector Breathless Challenge

È davvero l’agitazione che ci spinge a farlo?

«Certo. La tensione fa aumentare il livello di cortisolo, l’ormone dello stress che ci provoca la pelle d’oca e ci fa raddrizzare i capelli. Ma, soprattutto, fa entrare in azione il sistema nervoso simpatico, un meccanismo ancestrale che ci predispone alla cosiddetta reazione “fight or flight”, combatti o fuggi. In un certo senso, è come se tornassimo un po’ animali, con scarsa capacità di controllare le nostre reazioni».

Non è vero allora che l’ansia ci porta a dare di più.

«Se è tanta, no. Si parla infatti di “distress”, una condizione negativa che può diventare invalidante fino a farci sentire paralizzati. Accade anche agli atleti, quando non riescono a gestire la pressione e sono costretti a fermarsi».

La soluzione?

«Invertire la rotta a livello nervoso. A riprendere il controllo deve essere il sistema parasimpatico, quello che induce la risposta “rest and digest”, riposa e digerisci».

A parole sembra facile, ma in realtà…

«Non lo è. Per riuscirsi, dobbiamo partire proprio dal respiro. In particolare, allungare i tempi dell’espirazione in modo da ottenere una reazione a catena: rallentare il cuore e spingere la mente a rilasciare serotonina, l’ormone del benessere, ma anche a produrre onde alfa, che inducono il rilassamento. Una volta raggiunto questo stato, possiamo parlare di “eustress”, quella tensione positiva in cui siamo padroni di noi stessi e diamo il meglio».

Il primo passo?

«Sbadigliare, anche se può sembrare banale. È un’azione che sblocca subito il diaframma. Non solo. Grazie all’azione sugli organi viscerali, rimette in circolo fino al 30 per cento del sangue che altrimenti ristagnerebbe. Basta uno sbadiglio e ritorniamo presenti con la mente. Non a caso, lo facciamo in modo spontaneo se siamo stanchi o annoiati».

E poi?

«Bisogna assumere una posizione funzionale per il respiro. L’ideale è sdraiarsi a terra, per fare in modo che la forza di gravità prema sulla pancia e spinga il diaframma a distendersi. In più il contatto con il suolo dà sicurezza. Se poi siamo all’aria aperta va ancora meglio: osservare l’azzurro del cielo ci spinge a rilassarci».

E se siamo in una riunione di lavoro?

«Dobbiamo sederci con i glutei sul margine della sedia e tenere la schiena diritta. In questo modo, evitiamo di stare incurvati in avanti, nella posizione ingobbita che impedisce ai polmoni di espandersi come dovrebbero. Infine, attenzione a come usiamo la bocca».

In che senso?

«Dopo aver inspirato dal naso, si deve espirare socchiudendo le labbra, come per spegnere una candela. Così facendo, l’aria ci mette più tempo a uscire».

E se oltre che ansiose, siamo spaventate?

«La paura cambia la mimica facciale: fa contrarre i muscoli masticatori, serrare le mascelle e corrucciare la fronte. Così, respirare diventa ancora più difficoltoso. Per ritrovare la calma, dobbiamo riprendere il controllo del nostro viso: distaccare i denti e, mantenendo le labbra vicine, accennare un sorriso. Man mano che il flusso d’aria aumenta, ritorna anche la calma».

Lei si fa mai prendere dall’ansia?

«Certo. Ma a differenza delle altre persone, in un minuto mi calmo. Perché respiro sempre in modo consapevole e quando mi accade qualcosa, so subito che cosa fare».

E quando è in apnea? L’idea di non poter respirare non la manda in panico?

«No, ma solo grazie all’allenamento. Prima di immergermi, mi dedico al “full charge”, il pieno d’ossigeno: contraggo e decontraggo il diaframma per alcuni minuti per ingrandire il serbatoio di aria inspirata. Una tecnica che fa la differenza: la mia capacità polmonare, che a riposo è di circa 7,7 litri, arriva fino a 10. Una volta in apnea, per alcuni minuti non sento il bisogno di respirare. Anzi, vivo un benessere profondo. Come quando, dopo una giornata pesante, ci si immerge nella vasca da bagno e si sta così bene che per qualche istante si trattiene il fiato».

A un certo punto, però, la scorta si esaurisce.

«È vero. A quel punto, l’ossigeno cala e l’anidride carbonica si accumula. E allora viene fuori l’istinto di sopravvivenza, che mi dice di respirare: il diaframma si contrae e la mente va in crisi. Per controllarmi, mi aiuto con il training autogeno, una tecnica che possiamo usare tutti».

L’esercizio da imparare

Si chiama “respirazione al quadrato” e viene dal training autogeno. È utilizzata da militari, studenti universitari, manager e piloti di Formula 1.

1. Inspira 3-5 secondi, poi fai una pausa di apnea altrettanto lunga. Espira per altri 3-5 secondi, quindi mantieni il respiro per lo stesso tempo. Ripeti per almeno 4-5 cicli respiratori.

2. Perché funzioni, devi gonfiare la pancia, lasciando che l’aria penetri fino in fondo nei polmoni. L’ideale è abbinarlo a un piccolo mantra, da ripetere all’inizio di ciascuna fase di apnea.

3. Scegli una frase che funzioni da ancora mentale, cioè che ti ricordi l’atteggiamento giusto da tenere. Prima di un colloquio con il capo, per esempio, il mantra sarà: «Sono pronta».

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