Chiudere la scuola serve o no? I dati

Uno studio, pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet, mostra gli effetti delle restrizioni e in particolare la chiusura delle scuole.

Nella prima ondata di epidemia Covid, la scorsa primavera, le prime a chiudere sono state le scuole, che poi hanno anche riaperto a settembre per ultime. Ora i provvedimenti per contenere i contagi hanno interessato soprattutto alcune attività ritenute meno indispensabili, come i locali notturni, ristoranti e bar in orario serale, ma anche palestre, piscine, musei e mostre. Ma quali sono le misure che permettono di ottenere i migliori risultati in termini di riduzione della circolazione del virus? Ad analizzare gli effetti delle chiusure ci hanno pensato alcuni studiosi scozzesi, in una ricerca pubblicata sulla rivista The Lancet.

Gli effetti delle chiusure parziali e totali

I ricercatori dell’Usher Institute dell’Università di Edimburgo in Scozia hanno analizzato le misure adottate da 131 paesi nel mondo tra gennaio e giugno scorsi, mettendole a confronto con la riduzione dell’indice di contagio (R zero) in un periodo medio di 28 giorni. Il primo dato emerso è stato un sostanziale calo nella diffusione del virus dopo lo stop alle attività produttive, la chiusura delle scuole, il fermo di ogni manifestazione pubblica e la limitazione degli spostamenti, ma con una forbice che oscillava tra il 3% e il 24%, a seconda degli interventi. In particolare, sospendendo eventi pubblici con più di 10 persone la riduzione è stata del 6% dopo 7 giorni, del 13% dopo 14 giorni e del 29% dopo 28 giorni.

Aggiungendo la chiusura dei luoghi di lavoro si è arrivati al 38% dopo 28 giorni, salito al 52% con il lockdown completo.

Quanto incide la chiusura delle scuole

Tra le prime a sospendere l’attività e tra le ultime a riprenderla, in tutto il mondo, è proprio la scuola al centro delle valutazioni di diversi Governi, sia per il ruolo dei bambini e dei ragazzi nella diffusione del virus, sia perché comporta una maggiore mobilità. Ma quanto inciderebbe chiudere le classi? Lo studio di Lancet mostra come questa misura permette di ridurre del 15% la trasmissione del coronavirus dopo 28 giorni. La riapertura, invece, la farebbe aumentare del 24%, sempre sulle quattro settimane. «Uno studio cinese- ricordano i ricercatori – ha mostrato come la chiusura delle scuole da sola non potrebbe interrompere la trasmissione, ma potrebbe potenzialmente far ridurre il picco del 40/60%». Sono gli stessi studiosi scozzesi, però, a chiarire di non essere «stati in grado di tenere conto delle diverse precauzioni relative alla riapertura della scuola che sono state adottate da alcuni Paesi, come la distanza fisica all’interno delle classi (per esempio, limitare le dimensioni delle classi e posizionare divisori trasparenti tra gli studenti) e al di fuori delle aule (per esempio, distanza fisica durante i pasti, la ricreazione e il trasporto), igiene migliorata (pulizia profonda di routine, lavaggio delle mani e maschere per il viso) e altri (per esempio, controlli della temperatura termica all’arrivo). Tali precauzioni sono indispensabili per riaprire la scuola in sicurezza». La scuola oggi, quindi, è sicura?

Il ministro dell’Istruzione, Lucia Azzolina, continua a ripetere che le scuole devono rimanere aperte e che rappresentano uno dei luoghi più «sicuri». I dati del MIUR sembravano confermare, tanto che dopo il primo mese del nuovo anno scolastico, la percentuale di contagi tra gli studenti era dello 0,6%. I numeri al 2 novembre, però, sono cresciuti, arrivando a 22.253 nuovi positivi nelle scuole (su 135.731 tamponi). Tra le Regioni dove si registra il maggior numero di contagi, anche nelle aule, ci sono Piemonte, Lombardia, province di Trento e Bolzano, Campania e Puglia, dove non a caso si è tornati a fare didattica a distanza perché, come spiegato dall’Assessore alla Sanità pugliese, l’epidemiologo Pierluigi Lopalco, «i lockdown più sono precoci più c’è la probabilità che siano di breve durata».

Eppure i risultati di uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, portano a conclusioni opposte. Dopo aver analizzato diverse ricerche, il report conclude che i dati «suggeriscono che le scuole non siano punti caldi per le infezioni da coronavirus. Nonostante i timori, le infezioni da Covid-19 non sono aumentate quando scuole e asili nido hanno riaperto. E quando si verificano focolai, per lo più provocano solo un piccolo numero di positivi».

I dati sulla capacità di trasmissione dei bambini

Secondo Walter Haas, epidemiologo di malattie infettive presso il Robert Koch Institute di Berlino, questo accade perché i bambini tra 0 e 5 anni hanno una capacità di trasmissione molto bassa rispetto agli adulti. Per l’esperto e il suo team l’indice di contagiosità rimane contenuto fino ai 10 anni, per poi crescere: «Il potenziale di trasmissione aumenta con l’età e gli adolescenti hanno la stessa probabilità di trasmettere il virus degli adulti – ha spiegato Haas – Adolescenti e insegnanti dovrebbero essere protagonisti di misure di mitigazione, come indossare mascherine o tornare alla didattica a distanza quando la trasmissione nella comunità è alta». Lo studio di Nature parla poi direttamente del caso italiano: «Più di 65.000 scuole in Italia hanno riaperto a settembre, ma solo 1.212 strutture avevano sperimentato focolai 4 settimane dopo. Nel 93% dei casi è stata segnalata una sola infezione e solo una scuola superiore aveva un cluster di oltre 10 persone infette».

All’estero scuole aperte: perché?

Se durante la scorsa primavera anche negli altri paesi esteri, colpiti dalla pandemia, le scuole erano state chiuse, ora nella maggior parte dei casi non sono interessate dalle restrizioni. In Australia, dove la seconda ondata si è registrata a luglio e da alcuni giorni non si contano più contagi, la didattica è proseguita pressoché ovunque in presenza. Delle 1.635 infezioni nelle scuole, nel 75% dei casi si è trattato di un singolo soggetto, mentre nel 91% ha riguardato 10 persone. In Francia, nonostante il record di contagi e il lockdown nazionale, si continua ad andare in classe. Lo stesso accade in Germania. Nel Regno Unito la maggior parte dei 30 focolai scolastici di giugno ha interessato il personale degli istituti e non gli studenti, mentre solo in 2 casi si è registrata una trasmissione tra bambini o ragazzi. Ma allora perché in Italia si torna alla didattica a distanza (al 100%, secondo le indiscrezioni sull’ultimo Dpcm) per le superiori?

Il punto debole sono i mezzi pubblici

Il vero focus sul rischio non sarebbe, dunque, sulla didattica in presenza, quanto dei mezzi pubblici, utilizzati sia dai lavoratori che dagli studenti, soprattutto del secondo ciclo.

Non a caso, nelle anticipazioni dell’ultimo Dpcm, il premier Giuseppe Conte ha fatto riferimento alla riduzione della capienza di tram, bus e metro del 50% (rispetto all’80% rispettato finora).

Secondo Sergio Iavicoli, componente del Comitato Tecnico Scientifico e direttore del Dipartimento di epidemiologia e Igiene del Lavoro dell’Inail, «La metropolitana non è un veicolo di contagio». Il problema, però, si pone nelle ore di punta e per tragitti superiori ai 15 minuti, che espongono i viaggiatori a maggiori rischi, nonostante le mascherine.

Ma su una ulteriore riduzione della capienza, che permetterebbe maggiore distanziamento, solleva dubbi un’indagine dell’Asstra, l’associazione che riunisce le società di trasporto pubblico urbano ed extraurbano: «risulterebbe difficile per gli operatori del Traporto pubblico locale continuare a conciliare il rispetto dei protocolli anti Covid e garantire allo stesso tempo il diritto alla mobilità di diverse centinaia di utenti ogni giorno, con il conseguente rischio di fenomeni di assembramento alle fermate e alle stazioni».

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