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Boom di test anticorpali. Ma servono?

Chi è guarito dal Covid o ha fatto il vaccino vuole certezze. E si affida alle analisi che misurano le difese immunitarie. Con due grandi esperti qui spieghiamo i tanti limiti e i pochi vantaggi di questa corsa ai test

Con le vacanze alle porte e la variante Delta che incombe la domanda che milioni di vaccinati e guariti si fanno in queste settimane è: quanto sono veramente protetto dal virus? Ecco spiegato allora il boom dei cosiddetti test anticorpali, quelli che “contano” gli anticorpi contro Covid. Solo in Lombardia in due mesi sono stati quasi 300 mila i cittadini che si sono fatti prelevare il sangue per controllare la loro risposta immunitaria.

«Stiamo registrando un aumento in tutto il Paese, e ci aspettiamo che la richiesta si moltiplichi man mano che cresce la popolazione vaccinata» conferma il presidente di Federlab Gennaro Lamberti. A Como la Croce Rossa voleva offrire uno di questi esami gratuitamente, ma visto il numero delle richieste arrivate al sito ha dovuto tornare rapidamente sui suoi passi.

Eppure questo tipo di test divide scienza e autorità sanitarie, in Italia e non solo: negli Usa l’Fda lo sconsiglia, in Francia, al contrario, la sanità pubblica lo suggerisce prima del vaccino, per intercettare chi si è già ammalato, cioè i soggetti a cui fare una sola dose. «Il punto è che i test anticorpali ci mostrano solo una parte delle nostre difese, e cioè il numero di anticorpi presenti in quel momento» esordisce Massimo Ciccozzi, direttore dell’Unità di statistica medica ed epidemiologia del Campus Bio-medico di Roma. «Ma non ci rivelano nulla sulla cosiddetta memoria immunologica, che invece gioca un ruolo importante quando entriamo in contatto con il virus: è in grado di attivare in poche ore la produzione di nuovi anticorpi».

Ma allora questi test servono o no? E a chi? Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza.

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Alcuni test sono più validi di altri?

Cominciamo dalla polemica sui diversi tipi di test: ne esistono di più o meno validi sul mercato? I test per verificare la risposta anticorpale sono i cosiddetti sierologici, che conosciamo dalla prima fase della pandemia. Sono più di 500 quelli sul mercato e sfruttano criteri di misurazione diversi: si va dai “pungidito” ai prelievi venosi, con un costo che oscilla tra i 15 e i 60 euro. Prima cosa da sapere: chi vuole controllare la sua situazione “post vaccino” dimentichi i testi rapidi. Deve puntare sugli esami di un laboratorio accreditato che rivelino numero e tipologia di immunoglobuline.Se faccio il test e la protezione anticorpale risulta bassa, cosa significa?


Si moltiplicano i laboratori che effettuano i test sierologici. Sul sito www.iomitesto.it c’è una mappa città per città.


«È preferibile scegliere una struttura che abbia già esperienza sul campo ed evitare chi si improvvisa» sostiene Carlo Federico Perno, virologo e responsabile della Microbiologia e diagnostica di immunologia del Bambino Gesù di Roma. «Mi è capitato di leggere referti in cui si dichiarava “risposta eccellente” a fronte di valori molto bassi. Il risultato va fatto valutare da un medico, perché il dato tecnico va interpretato sulla storia clinica della persona. Infine, per vedere la risposta al vaccino dobbiamo misurare gli anticorpi “anti S”, quelli che si sviluppano con l’immunizzazione. Tutti gli altri rivelano solo se abbiamo contratto il virus».

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Se faccio il test e la protezione anticorpale risulta bassa, cosa significa?

«L’esame può dare tre tipi di risultati» continua il virologo. «Il primo è “zero anticorpi”. Non succede quasi mai nei soggetti sani e può capitare nelle persone immunocompromesse: significa che non si hanno difese contro il virus. Un dato sopra i 1.000 ci dice invece che siamo presumibilmente protetti dalla malattia, anche se va tenuto presente che i numeri calano nel tempo, e andrebbero monitorati». Se i valori sono più contenuti? «Solo sotto i 100 il titolo è considerato davvero basso. In questi casi però l’organismo potrebbe avere altre armi, altri tipi di difese che non misuriamo con il test sierologico». Chi ha avuto il Covid, per esempio, ha generalmente meno anticorpi dei vaccinati, ma i dati dicono che pochissimi si infettano una seconda volta.

Chi dovrebbe veramente fare il test sierologico?

Ma allora a conti fatti chi dovrebbe veramente fare il sierologico? «I soggetti a cui può essere raccomandato sono coloro che rispondono meno bene al vaccino: grandi anziani, trapiantati, malati oncologici» spiega ancora Perno. «Per loro conoscere la situazione può essere importante, anche in vista di una terza dose». Quanto agli altri, il test si può fare, ma sapendo che un numero di anticorpi basso non significa essere necessariamente a rischio. «E infatti gli studi effettuati finora sui diversi vaccini e su decine di migliaia di persone con risposte anticorpali differenti ci danno sufficiente garanzia per affermare che sì, i vaccini ci proteggono» chiarisce l’epidemiologo Massimo Ciccozzi.

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Se sono vaccinato e ho pochi anticorpi rischio di essere comunque contagiato ma non mi ammalerò in modo grave. È così?

Sì, nella stragrande maggioranza dei casi. Questo perché l’attacco all’organismo da parte del virus è in due step: entra nel naso dove si replica per raggiungere gli altri organi, tra cui, sopratutto, i polmoni. Normalmente il vaccino protegge meno nella prima fase di replicazione, mentre in quella successiva ha già messo in campo le armi per impedire al patogeno di propagarsi e dare inizio alla malattia vera e propria. E per quello che si sa finora, questo meccanismo non dipende dal numero di anticorpi presenti.

È così anche per la tanto temuta variante Delta?

«I primi studi sui contagi della variante Delta ci dicono che l’immunizzazione è efficace ma solo se il ciclo è stato completato» spiega l’epidemiologo Massimo Ciccozzi. «Una recente analisi dell’agenzia governativa inglese Public Health England mostra che con una sola dose di vaccino a vettore virale, come Astrazeneca, la protezione è intorno a 33%, con i sieri a Rna, come Pfizer e Moderna, sale al 50%. Con due dosi si arriva nel primo caso al 69%, e quasi al 90% nel secondo».

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È consigliabile cambiare tipo di vaccino per la seconda dose?

Il presidente Draghi ha dichiarato di aver controllato la risposta anticorpale tra prima e seconda dose e, visto che era bassa, ha cambiato tipo di vaccino. Dobbiamo farlo anche noi? La verità è che al momento la vaccinazione eterologa è prevista solo per gli under 60 che hanno ricevuto la prima dose di Astrazeneca. Ma, al di là della dichiarazione di Draghi, gli esperti che abbiamo interpellato sconsigliano i test dopo la prima iniezione. «Gli anticorpi potrebbero essere alti o bassissimi e in questa fase è un’informazione che non ci dice nulla dal punto di vista della protezione» chiarisce il professor Perno. «La prima dose è solo preparatoria, per scatenare la risposta immunitaria è necessaria la seconda».

A chi è guarito dal Covid conviene fare il test per orientarsi sul vaccino?

Ai guariti il ministero della Salute raccomanda un solo richiamo del vaccino tra i tre e i sei mesi dalla guarigione, consiglia l’intero ciclo se è passato più tempo. «È ragionevole pensare che chi ha un titolo anticorpale altissimo, sopra quei 1.000 di cui abbiamo parlato prima, sia ben protetto e potrebbe anche rimandare di qualche tempo la somministrazione» spiega il virologo Federico Perno. «Ma la scienza al momento non è in grado di dare risposte definitive, in più la risposta anticorpale tende a calare con il tempo e andrebbe monitorata costantemente. Quindi conviene seguire le indicazioni delle autorità, sapendo che possono essere modificate man mano che emergono nuove evidenze».

La vaccinazione eterologa funziona di più

La notizia piacerà a tutti quelli che hanno già fatto Astrazeneca e per il richiamo dovranno cambiare siero: l’eterologa sembra funzionare di più. La spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che prodotti differenti stimolano la risposta immunitaria con modalità diverse.

Spiega l’epidemiologo Massimo Ciccozzi: «Due studi indipendenti, uno inglese e uno spagnolo, sono arrivati alla stessa conclusione: l’eterologa è più efficace. Chi ha meno di 40 anni, ha fatto uso di progestinici o ha preso la pillola e, quindi, rientra nella popolazione considerata più a rischio per Astrazeneca, può optare serenamente per un vaccino a Rna per il richiamo. Non è la prima volta che si usano sieri diversi in una campagna vaccinale. Con l’eterologa abbiamo debellato la poliomielite».

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